Il Messaggero, 2 ottobre 2025
Spread al tramonto Ora si va verso il tasso unico Ue
Il 9 novembre del 2011 è una data impressa nella memoria degli italiani. Quel giorno il differenziale tra i Btp e i Bund tedeschi, raggiunse il suo massimo toccando i 575 punti. Per comprare i titoli di Stato italiani, i grandi fondi internazionali chiedevano il 5,75 per cento in più di una obbligazione emessa dal governo federale tedesco. Una situazione insostenibile, che fu la causa della caduta dell’ultimo governo Berlusconi il 16 novembre, e dell’arrivo a Palazzo Chigi di Mario Monti. L’Italia sembrava poter cedere sotto l’attacco speculativo degli investitori internazionali e con lei l’euro, la moneta unica. Anche perché Roma, come si diceva allora, era “too big to fail”, troppo grande per fallire o per essere salvata. Tra poco più di un mese saranno passati esattamente quattordici anni da quel momento. E sembra, ma sarebbe meglio dire è, tutto un altro mondo. Tanto che qualcuno inizia a parlare, in Europa, addirittura di una «fine dello spread». Archiviare cioè, quell’indicatore che negli ultimi tre lustri ha segnato per i cittadini, ma soprattutto per i governi una sorta di “indice della paura”. Lo spread, del resto, non fa altro che misurare la differenza di interessi chiesta dai mercati per finanziare il debito di un Paese rispetto ad un benchmark, un punto di riferimento, considerato come un “porto sicuro”. Ruolo che dalla nascita dell’euro ha svolto il bund tedesco.
LA MAPPA
Per molti anni, e fino a poco tempo fa, nel Vecchio Continente la distanza dai rendimenti tedeschi è stata molto variegata. Ridotta nei Paesi di solito indicati come “frugali”, vale a dire Olanda, Austria e Lussemburgo, medio-bassa in grandi Paesi come la Francia, alta o molto alta nei Paesi periferici del Sud Europa, quelli indicati con l’acronimo Pigs, che come noto in inglese significa maiali. Vale a dire Portogallo, Italia, Grecia e Spagna.Adesso la situazione è cambiata. I Pigs hanno tutti fatto i compiti a casa. E li hanno fatti pure bene. Il Portogallo ha messo deficit e debito sotto controllo e cresce più della media dell’Eurozona. Lo stesso vale per la Spagna. L’Italia cresce un po’ meno, ma ha corso tanto negli anni dopo il Covid e, comunque, in Europa è quella che al momento riesce a tenere meglio di tutti la spesa sotto controllo. Anche la Grecia, il Paese dal quale era partita la crisi dei debiti sovrani, ha un debito in discesa (anche se ancora elevato), un avanzo primario di conti, un’economia che cresce e la disoccupazione ai minimi da 17 anni.
Che il quadro sia cambiato, se ne sono accorte persino le agenzie di rating, in genere le più lente a muoversi. L’Italia ha appena ricevuto l’upgrade Fitch a BBB+, la Spagna ha ricevuto upgrade da Moody’s (A3), Fitch (A), e S&P (A+), la Grecia è stata promossa a investment grade da tutte le agenzie principali. Dati che mostrano il rafforzamento della posizione creditizia dei Paesi periferici grazie al miglioramento dei fondamentali e alla riduzione dei rischi macroeconomici, mentre la fiducia degli investitori si mantiene elevata.
Se però da Sud ci si sposta verso Nord nel Vecchio Continente, le cose cambiano. Della crisi politica, che si riflette anche sul bilancio pubblico, della Francia si è detto e scritto molto. I rendimenti degli Oat francesi hanno ormai pareggiato quelli italiani. Anche i rendimenti della Germania non scendono più. Il governo Merz ha annunciato un piano di riarmo da 500 miliardi di euro e un piano di infrastrutturazione di pari valore. Nei prossimi anni Berlino sarà costretta a mettere sul mercato molti più Bund, e gli investitori iniziano a chiedere rendimenti più alti. Il miglioramento dei rendimenti nei Paesi periferici e l’aumento, leggero o moderato che sia, nei vecchi Paesi core dell’Europa, ha un effetto per adesso probabilmente non ancora pienamente valutato: i tassi di interesse dei Paesi della zona Euro si stanno “appiattendo”. Tolte Ungheria e Repubblica Ceca che sono fuori scala, la differenza di rendimento tra il titolo tedesco, considerato sicuro, e gli altri titoli emessi dai governi europei, è contenuta all’incirca in 0,8 punti percentuali. Negli ultimi due anni questa convergenza verso i “tassi uniti d’Europa” ha accelerato. Secondo alcuni report, come quello di S&P Global, potrebbe aver raggiunto il suo culmine, perché fare meglio potrebbe essere difficile. Si vedrà. Ma questa nuova condizione che si è creata grazie soprattutto al rigore dei Paesi del Sud Europa, potrebbe favorire la riapertura di una discussione tra le cancellerie europee e la Commissione sull’emissione degli Eurobond, vale a dire nuovo debito comune europeo dopo quello fatto per finanziare il Recovery plan. Un titolo di Stato europeo potrebbe affiancare o sostituire, il Bund nel ruolo di “safe asse”, di porto sicuro per gli investitori internazionali, permettendo di finanziare a costi minori alcune politiche europee, cominciando magari da quelle legate alla Difesa e alle transizioni ecologica e digitale.
Una delle ragioni spesso utilizzate dai Paesi “frugali” per frenare il progetto del debito comune, è stata quella di non voler avvantaggiare i Paesi “spendaccioni” del Sud che, dietro il paravento delle emissioni comuni di debito, avrebbero potuto dare maggior fondo alle spese nazionali. Una sorta di liberi tutti. Gli ormai ex Pigs però, hanno dimostrato con i fatti di saper tenere sotto controllo i propri bilanci nazionali, conquistando prima la fiducia dei mercati finanziari e poi quella delle Agenzie di rating. Ora non manca che incassare anche la fiducia dei partner europei. Non solo.
GLI STRESS TEST
Di pari passo con la disciplina del bilancio pubblico, è andata avanti in parallelo la disciplina dei bilanci delle banche. Negli ultimi stress test condotti dall’Eba sugli istituti di credito europei, le banche italiane hanno registrato uno degli impatti patrimoniali più contenuti dell’intera Unione. Le banche europee nel complesso hanno superato gli stress test senza violare i requisiti patrimoniali minimi, ma le italiane sono risultate la componente più virtuosa, davanti a molti gruppi francesi, tedeschi, spagnoli e nordici. Il buono stato di salute degli istituti di credito potrebbe aiutare a superare un altro dei “postulati” che hanno frenato fino ad oggi i Passi avanti nell’unione bancaria, propedeutica al debito comune. Vale a dire l’affermazione per cui potrebbero essere i risparmiatori tedeschi a dover pagare i salvataggi bancari del Sud Europa. Un’affermazione ormai difficile da sostenere (ma anche in passato non è mai accaduto). L’Europa del debito insomma, è più vicina di quanto ci si possa immaginare.