D - la Repubblica, 1 ottobre 2025
Se ci sentiamo soli, è un fatto biologico: non ci siamo “evoluti” ai ritmi del mondo di oggi
E se i problemi della nostra vita fossero legati al fatto di non essere “disegnati” per il mondo in cui viviamo? La domanda è stata per lungo tempo dimenticata dalla filosofia della scienza, ma il filosofo tedesco Jonas Pöld l’ha riportata sotto i riflettori con il libro “Mismatch Theories in Evolutionary Medicine: A Philosophical Exploration” (Teorie del disallineamento nella medicina evoluzionistica: un’esplorazione filosofica, ndr). Nel saggio, uscito la scorsa primavera, Pöld esplora le implicazioni del fatto che i nostri geni siano rimasti praticamente immutati per gli ultimi 100mila anni e, dunque, ci troviamo a vivere in un mondo profondamente diverso rispetto a quello in cui ci siamo evoluti. La vita del cacciatore-raccoglitore, infatti, era basata su un’alimentazione frugale, un’esistenza condotta in piccole comunità caratterizzate da un rapporto molto stretto con la natura e il lavoro manuale. Ben poco a che vedere con il mondo frenetico, digitale e cosmopolita in cui viviamo oggi, come spiega lo psichiatra Alex Curmi, che riflette sui limiti della proverbiale adattabilità dell’Homo sapiens dalle colonne del Guardian: “Gli adattamenti genetici che richiedono decine di migliaia di anni difficilmente possono stare al passo con l’urbanizzazione, con i cambiamenti tecnologici e culturali che possono avere effetti profondi già nel corso di una sola vita”. Dunque, se in tanti aspetti della vita moderna ci sembra di andare controcorrente e se seguire i nostri istinti ci mette spesso nei guai, la ragione potrebbe proprio trovarsi nelle due diverse velocità di evoluzione: la nostra e quella del mondo che ci circonda. Ecco come.
Salute: il corpo e la mente
Uno fra gli effetti più visibili del “disallineamento genetico” si trova proprio nel nostro girovita. “L’istinto di abbuffarsi di cibi ricchi di sale, grassi e zuccheri ha permesso all’uomo di sopravvivere per gran parte della storia, quando il pasto successivo non era mai garantito – scrive Curmi, che è anche la voce del podcast The Thinking Mind -. Oggi, invece, viviamo in un mondo in cui le calorie sono economiche e dove gli scienziati sviluppano cibi ‘iper-palatabili’ – cioè molto più appetibili di qualsiasi alimento presente in natura. Questi snack artificiali interferiscono con la capacità del corpo di regolare l’appetito, rendendo difficile limitarsi a una sola patatina o a un solo biscotto”. Il risultato sono fenomeni mai visti prima nella storia della nostra specie; l’obesità, malattie metaboliche, diabete e ipertensione.
Gli effetti non si limitano solo al nostro corpo: una ricerca internazionale pubblicata lo scorso anno ha evidenziato come una dieta ricca di alimenti ultra-processati e iper-palatabili è associata sia all’aumento del peso corporeo sia a un rischio maggiore di depressione. Per ogni incremento del 10% di calorie derivanti da questi alimenti, il rischio di sviluppare sintomi depressivi aumentava dell’11%. “L’aumento dei casi di depressione e di altri problemi di salute mentale può essere interpretato anche attraverso la lente del disadattamento evolutivo”, prosegue lo psichiatra. La vita dei cacciatori-raccoglitori, infatti, dava risultati immediati, come procurarsi cibo o costruire rifugi, e offriva anche un supporto emotivo attraverso tradizioni e rituali. “La tecnologia moderna rende la maggior parte di queste esperienze opzionali, anziché essenziali. Molti di noi vivono una vita scollegata dagli altri, priva di lavori gratificanti e senza un senso profondo. In questo contesto, l’umore basso non è il malfunzionamento di un cervello danneggiato, ma un segnale che potremmo star perdendo aspetti fondamentali dell’esperienza umana”.
Relazioni sociali: solitudini collettive
Infatti, anche la vita sociale è influenzata dal mismatch evolutivo. La vita in tribù garantiva vicinanza, ruoli chiari, rituali condivisi e contatti immediati. Oggi, pur essendo sempre connessi, spesso ci sentiamo soli e ansiosi. Le interazioni online tendono a essere superficiali, generando legami meno stabili e meno gratificanti, mentre l’eccesso di scelta, ad esempio nei partner potenziali o nei gruppi social, può provocare paralisi decisionale e insoddisfazione cronica. “Proprio come i cibi artificiali sfruttano i nostri appetiti ancestrali, anche gli strumenti digitali e i social media fanno leva sul nostro bisogno innato di significato e appartenenza”, osserva Curmi, richiamandosi all’appeal di applicazioni come ChatGPT. “Le aziende di intelligenza artificiale sono rimaste sorprese dall’intensità con cui le persone si affezionano emotivamente ai loro prodotti. E stanno emergendo segnalazioni secondo cui i chatbot possono alimentare deliri e pensieri paranoici in persone vulnerabili alla psicosi”. Profetico, a questo proposito, il film “Her” di Spike Jonze, in cui il protagonista sviluppava una relazione affettiva con un’intelligenza artificiale, mostrando come la tecnologia possa sostituire interazioni umane reali e generare legami emotivi artificiali, ma senza riempire il vuoto di contatti interpersonali profondi. Lo conferma uno studio pubblicato lo scorso anno su JAMA Network Open, che ha rilevato come l’uso eccessivo dei social media (oltre le tre ore al giorno) aumenta significativamente il rischio di solitudine e sintomi depressivi tra giovani e adulti. Le relazioni costruite esclusivamente online, infatti, non stimolano gli stessi circuiti di gratificazione emotiva delle interazioni reali, con impatti sul benessere psicologico.
Lavoro: l’altro lato della medaglia
Lunghi anni di studio, professioni sempre più digitali, giornate trascorse sui mezzi di trasporto e dentro a un ufficio: trovare un senso di scopo nel proprio lavoro è sempre più difficile. Mentre per millenni, l’uomo ha vissuto in piccoli gruppi con compiti quotidiani direttamente legati alla sopravvivenza, la sussistenza oggi è legata a professioni quasi invariabilmente separate dai bisogni reali della vita. Secondo il Censis, il 31,8% dei lavoratori dipendenti ha dichiarato di aver provato sensazioni di esaurimento, estraneità o sentimenti negativi nei confronti del proprio lavoro, una condizione che richiama forme di burnout. Allo stesso modo, mentre il mondo moderno ci offre un’immediatezza mai conosciuta prima nella storia, ci chiede di posticipare le gratificazioni – come risparmiare denaro, portare a termine progetti che richiedono un lungo arco di tempo –, imponendoci di sviluppare disciplina e strategie consapevoli per raggiungere i nostri obiettivi, mettendo a dura prova la nostra capacità di resistenza.
Rispondere al disadattamento evolutivo
La prospettiva evoluzionistica, dunque, è interessante perché ci solleva dal senso di frustrazione, autocritica e risentimento: “Tutte quelle cose che appaiono come un fallimento personale – il fatto di non riuscire a perdere peso, il vuoto di un lavoro che credevamo invece di desiderare, la solitudine delle città moderne – possono essere lette alla luce del fatto che il mondo si è sviluppato in modi che la nostra biologia non è riuscita a seguire”. Dunque, capire da dove arriviamo, ci aiuta ad affrontare i nostri problemi con molta più consapevolezza: “Piuttosto che rimproverarci per non riuscire a controllare i nostri impulsi, possiamo osservarli attraverso la lente del disadattamento evolutivo e iniziare a pensare a strategie utili per gestirli”. Per esempio, possiamo selezionare con più attenzione gli alimenti che compriamo, eliminare le app dei social media, limitare il tempo davanti agli schermi. E poi, verificare soluzioni per migliorare il senso di connessione e comunità: “Tutte azioni che cambiano profondamente l’esistenza, non perché ci sia qualcosa che non vada in noi, ma perché viviamo in tempi ‘strani’”, conclude Curmi