Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  ottobre 01 Mercoledì calendario

Alto Adige, due società parallele indifferenti l’una all’altra

«La macchina autonomistica, che in Alto Adige rende possibile a ognuno l’uso della propria lingua, ha generato fondamentalmente due società radicalmente parallele che, con l’entrata in vigore dello strumentario e del patentino di bilinguismo, si sono progressivamente allontanate l’una dall’altra». Nel suo saggio critico «Lingue matrigne. La menzogna del bilinguismo in Alto Adige/Südtirol» (Alphabeta edizioni, 286 pagine, 17 euro), Gabriele Di Luca «rinuncia a ricette o soluzioni». «L’attrito degli anni della contrapposizione etnica produceva almeno curiosità, una forma di interesse, anche se magari negativo – premette -. Oggi, invece, gruppo italiano e tedesco non si sono integrati: si sono allontanati, passando da uno stato mentale e affettivo di conflittualità a uno di reciproca indifferenza per cui coesistono». 
Il saggio nasce dall’idea di «decostruire un mito»: quello di «una provincia virtuosamente bilingue, che in realtà nasconde incertezze e rigidità mentali». Di Luca non intende negare il valore del bilinguismo in sé, ma «smascherare la narrazione dominante, tanto nel discorso politico quanto istituzionale, che ha costruito un’immagine di facciata fatta di una retorica pacificata che non affronta il problema». L’autore, livornese ma trasferito a Bolzano da trent’anni, definisce l’opera come una sorta di «autoanalisi», un tentativo di chiarire a sé stesso come funziona il rapporto tra le lingue.
La struttura del libro riflette la sua genesi ibrida, «a metà tra il frammento autobiografico e il reportage narrativo». Dopo una prima parte teorica, che esplora «il conflitto tra lingua madre e lingua matrigna», la sezione delle «scene» sottopone l’impianto teorico alla «prova della realtà». Il titolo del saggio riflette «l’immagine emblematica di una reciproca estraneità», che può alimentare «barriere insormontabili». Tra le scene indagate ci sono l’esame ufficiale di bilinguismo, il famigerato «patentino», l’ospedale, il bar, il Consiglio provinciale. 
Ma le manifestazioni più evidenti di questa tesi si trovano in settori nevralgici come la scuola, dove la preminenza della madrelingua regge un sistema basato sulla lingua prioritaria e la lingua secondaria. «Ne consegue che gli italiani vanno a scuola e imparano un tedesco che poi nella società non si parla e quindi non lo useranno mai – spiega Di Luca -. I tedeschi usano invece un italiano stereotipato che non è fondato su nessuna curiosità intellettuale o culturale dell’altro. Di fatto, degli altri a nessuno interessa assolutamente niente». L’indifferenza cementifica le divisioni anche nel settore dell’informazione, definendo due «mondi lontani»: «Abbiamo due canali informativi completamente paralleli, in cui quello che fanno gli altri è del tutto privo di rilevanza». Tutto questo, secondo l’autore, «crea società fondamentalmente alienate l’una all’altra, celebrate in una meravigliosa finzione che si risolve in una pluralità senza comunicazione».
L’ultima «scena», intitolata «L’algoritmo e l’Altro», affronta l’avvento dell’intelligenza artificiale «che rischia di cristallizzare ulteriormente la distanza». La tecnologia è capace di tradurre e semplificare, generando un bilinguismo «senza attrito», ma Di Luca avverte: «L’IA non risolve il conflitto, lo riorganizza. La traduzione automatica può farci comprendere l’altro, ma non ci obbliga a incontrarlo». L’Alto Adige diventa così «il regno dell’Obneei-nander: del vivere accanto ma senza vedersi». L’integrazione non è negata, ma «derubricata a non-tema». Il saggio, ammette l’autore, «mantiene una tonalità emotiva disillusa che sospende la ricerca di ricette. L’obiettivo non è delineare soluzioni, ma descrivere ciò che è». La conclusione si intitola eloquentemente «Vivere senza gli altri», una diagnosi di «quello che accadrà sempre di più. Ma l’indifferenza “cova pericoli” e, per deviare questo corso, bisognerebbe ridestare la curiosità e riscoprire le fonti della desiderabilità dell’approccio con l’altro. Un processo che richiederebbe rimettersi in discussione, fare fatica. E nessuno sembra più averne voglia»