Avvenire, 30 settembre 2025
Il fondo brasiliano per tutelare le foreste
«Ci prendiamo cura dell’ambiente come nessun’altro». «Stiamo preservando quello che altri non hanno preservato». «Daremo il buon esempio». Ma soprattutto: «Non permettiamo a nessuno di ficcare il naso nel nostro Paese, del nostro cortile ci occupiamo noi». La recente svolta sovranista del presidente brasiliano Lula, al grido di «Il Brasile è dei brasiliani» in risposta a dazi e ingerenze varie di Donald Trump, coinvolge anche i temi dell’Amazzonia (che peraltro sarebbe la più estesa foresta pluviale del pianeta e non «il cortile» del Brasile) e più in generale della lotta ai cambiamenti climatici, a maggior ragione ora che mancano poche settimane alla COP30 che sarà ospitata a Belem. Ci sarebbe per la verità da discutere pure sulla scelta del luogo, fortemente rivendicato da Lula per il suo valore simbolico (Belem è nello Stato del Parà, alle porte dell’Amazzonia) ma che si sta rivelando un disastro logistico e anche un cortocircuito logico, visto che l’organizzazione dell’evento avrà eccome impatto sull’ambiente.
Eppure Lula tira dritto e ha appena fatto del Brasile il primo Paese al mondo a immettere risorse nel TFFF (Tropical Forest Forever Facility), il nuovo fondo per la tutela dell’Amazzonia e di tutte le foreste tropicali da lui stesso ideato, che sarà presentato appunto a Belem a novembre. Brasilia ha versato il primo simbolico miliardo di dollari, ma l’obiettivo è arrivare a 125 miliardi di cui una prima tranche da 25 a carico dei Paesi aderenti (hanno già dato segnali di interesse Cina, Regno Unito, Francia, Germania, Singapore ed Emirati Arabi Uniti, ancora niente dall’Italia), che dovrebbero poi innescare il contributo del settore privato per un centinaio di miliardi. Un’iniziativa simile ad altre – ad esempio il Fondo Amazzonia istituito dalla Norvegia nel 2008 – ma venduta come innovativa, per vari motivi. Intanto perché se la può intestare il Brasile e dunque di conseguenza il «Global South», come ama chiamarlo proprio il presidente brasiliano, ovvero quell’asse di potere globale che fa capo ai Brics ed ha come baricentro Pechino e Mosca più che Washington. Non ha mancato di farlo notare Razan Khalifa Al Mubarak, Inviata Speciale per la Natura degli Emirati Arabi Uniti, che a Reuters ha detto che «il TFFF segna una svolta, ed è guidata dal Sud del mondo».
Inoltre, il fondo per le foreste permette al Brasile di rimediare agli errori del passato e del presente. È infatti alquanto discutibile sostenere che nessuno si occupi dell’ambiente come il Paese sudamericano, che è responsabile come altri della deforestazione, anche se va riconosciuto all’attuale governo di aver frenato il ritmo allarmante che aveva preso sotto il predecessore Jair Bolsonaro. «Abbiamo ridotto della metà il disboscamento dell’Amazzonia», sostiene Lula, ma l’INPE (Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais) ha fatto notare che la tendenza non è consolidata, anzi nel primo semestre di quest’anno si è disboscato il 27% in più di un anno fa. E in compenso il 2024 è stato l’anno del record di incendi in Amazzonia, quasi tutti imputabili all’azione umana: 8 milioni di ettari distrutti dalle fiamme, quasi quanto la superficie del Belgio.
Tuttavia, il TFFF può rappresentare uno strumento importante, perché prevede premi economici per i Paesi che si impegnano a preservare l’ambiente e lo fa attraverso un monitoraggio via satellite costante e trasparente, con dati accessibili a tutti. «In questo modo la conservazione delle foreste diventa economicamente vantaggiosa, generando sviluppo sostenibile per le comunità locali e redditività per i Paesi con foreste, oltre a rendimenti finanziari per coloro che hanno investito il denaro», scrive il sito del governo brasiliano. Siccome nulla si fa gratis, figuriamoci adesso che sul green il presidente Trump sta portando il mondo in tutt’altra direzione, Il modello consentirebbe dunque agli investitori di recuperare le risorse investite, «con una remunerazione compatibile con i tassi medi di mercato». Basterà a convincerli?