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 2025  settembre 30 Martedì calendario

Desiderio, la versione di Starnone

«Mi accorsi presto, però, che avevo in mente soltanto una sorta di nuvola grigia dai tratti sommariamente femminili e per di più sfilacciati dal vento» – in questo modo, con Destinazione errata (in libreria da oggi per Einaudi), Domenico Starnone torna con una storia sul desiderio.
Il protagonista ha trentotto anni, fa lo sceneggiatore ed è sposato con Livia da cui ha tre figli piccoli. Il loro è un matrimonio felice, lui ama lei con l’ardore dell’inizio, e come non potrebbe, lei bellissima e sempre di buon umore.
Eppure per uno scambio di messaggi (lui invia a Claudia, la sceneggiatrice con cui lavora, un messaggio che era per la moglie, e alla moglie quello che doveva essere per Claudia) qualcosa cambia. Questione di sguardo. Il protagonista inizia a guardare la collega in modo nuovo. Di lei trattiene schegge che poi ricompone nella mente, perché in fondo siamo tutti un’invenzione, un assemblaggio di qualcun altro. Starnone fa compiere al suo personaggio un movimento vitale in parte illusorio: «Regredire, precipitare nei tredici-quattordici anni, inerpicarmi fino ai diciotto». Lo scopo è svelare un pertugio – precipizio o possibilità – dell’essere umano, la sua avventura. Tutti i romanzi di Starnone sono fatti di avventura nella misura in cui non c’è niente di più avventuroso dell’animo umano. Destinazione errata è un romanzo sorprendente e tenebroso dove la tenebra è l’esistenza. Con questo libro Starnone stupisce ancora, confermandosi il più grande scrittore italiano vivente, e insieme uno dei pochi ad aver portato avanti un discorso poetico, opera dopo opera. È un crescendo, non c’è mai una ripetizione. La parabola si snoda come uno svelamento graduale per lo scrittore e per il lettore che procedono insieme come frammenti dello stare al mondo, perché sono i frammenti a comporre il totale. Scrive infatti: «Tutta Roma in autunno sembra un cumulo di sassi color ocra».
Il protagonista ha trentotto anni. Trentotto anni sono giovinezza?
«Be’, se guardo dai miei ottantadue, sì. Ma se cambio sguardo, no, non considero giovane un trentottenne. Il personaggio me lo sono immaginato come un ragazzo invecchiato. Anche i vecchi che figurano nel racconto me li sono immaginati così».
Perché?
«Di questi tempi, una cosa è l’anagrafe, altro è la testa. Giovani e vecchi sfoggiamo sempre più età immaginarie».
Domenico Starnone a trent’anni. Un ricordo.
«Un ricordo del 1973? All’epoca ero un insegnante volenteroso, moglie a carico, due figli, uno di cinque, una di due. In una certa occasione un’amica mi strappò l’unico pelo bianco della barba dicendo: questo va tolto, il bianco invecchia».
Reazione sua?
«Fu un gesto sorprendente. Mi sentivo vecchio, la mia vita aveva una forma che consideravo definitiva, quel pelo bianco era nella norma».
Eppure la forma della sua vita non era definitiva, doveva succedere tanto.
«Ma non avevo ancora scoperto che di definitivo c’è solo la morte».
Per un errore il protagonista scopre di essere amato da Claudia, la donna con cui lavora da due anni. Cosa non ha visto di lei?
«Tutto ciò che potrebbe mettere inutilmente disordine nel quadro dentro cui ha sistemato la sua vita».
Il protagonista guarda Claudia in modo nuovo. Chiunque può essere guardato e conosciuto da capo?
«Chiunque, a patto che ci disorienti al punto da costringerci a ripensarlo».
L’origine del desiderio?
«Non so. Desiderio è una splendida parola ormai sovraccarica, ne abusiamo da oltre un secolo evocando automaticamente il desiderio sessuale. Male, bisognerebbe continuamente specificare. Desiderio di che»?

Di che?
«Siamo una ressa di desideri a volte antitetici. Ad esempio, desiderare la pace desiderando di cancellare il nostro nemico e le sue ragioni dalla faccia della Terra. Nel mio racconto entrambi i personaggi si rappresentano acquietati: lavoro, famiglia, affetti. Ma basta una lacerazione casuale ed entrambi, in modo diverso, intravedono ciò che nemmeno immaginavano che si potesse, invece si può».
Quindi?
«Desiderare è abbandonarsi alla forza del possibile».
Spesso tra le intenzioni del protagonista e le azioni c’è uno scarto. Chi esiste e vive in quello scarto?
«Nessuno. In quel momento si affollano materiali di varia natura, disomogenei, contraddittori, chiassosi. Il personaggio si scombina. E il racconto, che in genere procede ipotizzando coesione e coerenza dell’io, deve mostrare che quella compattezza è immaginaria».
E?
«Il passaggio è arduo, i mezzi letterari risultano sempre inadeguati. Anche la grammatica. Non abbiamo un pronome e nemmeno una coniugazione per lo scombino».
Lo scombino è centrale nella sua letteratura.
«Perciò, forse, pubblico libri da quarant’anni ma non sono mai contento».
Il disincanto
«Ero disincantato al mio primo libro, quarant’anni fa, e spero di esserlo ancora: è al disamore che bisogna cercare di sottrarsi»
«Di famiglia ho scritto fin troppo. Mi pare uno spazio dove, comunque ti adoperi, fai danno. In questo modo ne racconto anche in questo libro».
E la coppia?
«La coppia è l’approssimazione primaria alla conoscenza dell’altro, approssimazione felice e travagliatissima, sempre fallimentare. Mi pare il riassunto dei piaceri e degli orrori di questo mondo friabile».
Il fallimento nella conoscenza di sé e del mondo?
«Non so se impariamo qualcosa dai fallimenti, siamo sempre pronti a ricominciare ottusamente a far guai. In questo periodo ho l’impressione che non impariamo niente né dal male che facciamo né da quello che ci viene fatto. E quel che è peggio, non impariamo niente nemmeno dal bene».
Cosa invidia Domenico Starnone al suo protagonista?
«L’irresponsabilità».
Cosa rimprovera?
«L’irresponsabilità».
Questo romanzo è anche una riflessione sulla scrittura attraverso il personaggio di Carlo, lo scrittore, che fa un discorso disincantato sui trucchetti. Domenico Starnone condivide il disincanto?
«Mi considero disincantato fin dal mio primo libro, quarant’anni fa. Del resto, senza disincanto, non avrei mai avuto l’impudenza di pubblicare libri».
Ovvero?
«A vent’anni avevo un tale culto della letteratura – e di conseguenza ambizioni letterarie così grandi —, che non riuscivo a perdonare e a perdonarmi la medietà».
Dunque?
«È stato il disincanto del letterato ormai quarantenne a permettermi, nel 1985, di pubblicare a puntate sul “manifesto” il mio primo testo narrativo, Ex cattedra».
Scrittore per disincanto?
«Forse sì. Meno male che ero – e spero di essere ancora – disincantato ma non disamorato. È al disamore che bisogna cercare di sottrarsi».
Sottrarsi come?
«Non girando mai lo sguardo. Il disamore comincia tirando avanti a occhi bassi, autoingannandosi».
Per Domenico Starnone come è cambiato nel tempo il senso della scrittura?
«Non è cambiato granché. Dai quarant’anni in poi ho scritto per puro piacere, senza mai aspettarmi chissà cosa ma cercando di fare il possibile».
Poi?
«Poi invecchiando ho sentito che non avevo più l’energia per portare a termine libri lunghi e mi sono concentrato sempre più su testi brevi. Ma l’atteggiamento è rimasto lo stesso: ridurre i fronzoli, scartare i toni edificanti, raccontare quello che mi va».
Nel suo racconto pubblicato di recente sul «New Yorker» – «Tortoiseshell» – lei parla di un errore di traduzione nel racconto di Hemingway, «Gatto sotto la pioggia». Un errore che la entusiasma e la spinge a scrivere. Vale ancora il gatto di maiolica contro il gatto tartarugato vivo?
«Be’, perché no? Se fuori piove e il gatto vero non si riesce ad acciuffarlo, perché far disperare la donna che lo sta cercando? Meglio confortarla con un gatto di maiolica».
Basterà?
«No, la maiolica è insufficiente, è un errore, una bugia, presto o tardi andrà in mille pezzi. Ma la realtà del gatto è sfuggente, e una parvenza ben realizzata aiuta, tiene a bada l’angoscia. Quando la parvenza non regge più, se ne inventa subito un’altra. Il genere umano va avanti così da sempre».
Lei fa dire al suo personaggio che lo spaventa la fragilità, l’idea di organismi piccoli ed esposti. Gli organismi piccoli ed esposti per Domenico Starnone?
«Chiunque conti meno di zero agli occhi di chi ha piccoli o grandi poteri».