La Stampa, 29 settembre 2025
Intervista ad Alessandra Kustermann
«Sono sempre stata una ribelle». E con una volontà d’acciaio, forgiata anche grazie a un padre intransigente e amatissimo, a dispetto dei contrasti e della lontananza politica in un tempo in cui le differenze ideologiche spaccavano le famiglie. Alessandra Kustermann, 71 anni, ginecologa, una vita intera dedicata alla cura delle donne e alla loro difesa – si trattasse di dare applicazione alla legge 194 nella stagione tempestosa della clinica Mangiagalli a Milano, così come di fondare il primo pronto soccorso per le vittime di violenza sessuale in Italia -, racconta passato e presente con la carica di una ventenne.
A cominciare dalla sua famiglia «molto cattolica» e dal ruolo giocato da quest’ultima nella sua formazione: «Un ruolo fondamentale, per i principi molto saldi e il senso di obbligo morale che mi ha trasmesso: a noi quattro figli i miei genitori hanno insegnato che i talenti andavano usati a fin di bene, ed è ciò che mi ha guidato nella vita. Mio padre in particolare era molto sfidante, ma io rispondevo alle sfide».
Può fare un esempio?
«Frequentavo il liceo classico Parini a Milano e al quarto anno in un quadrimestre accumulai quaranta giorni di assenza su sessanta, fra occupazioni e iniziative politiche. Nei miei piani c’era di studiare Medicina, così mio padre mi chiese come potessi pensare di laurearmi, e di fare anche dei figli, se non riuscivo nemmeno a essere presente a scuola. Così mi sono trasferita a Roma dai nonni, ho finito l’anno con tutti 8 e ho superato la maturità da privatista per iscrivermi a Medicina a 17 anni».
Faceva politica a scuola? Quelli erano anni caldi.
«Ero nel movimento studentesco nel liceo della borghesia intellettuale milanese, ma non ero un tipo turbolento, sono sempre stata pacifista. Speravo che il mondo potesse essere meglio di quello che era, questo sì, ma durante le nostre occupazioni e autogestioni non sfasciavamo tutto: leggevamo le tragedie greche e vedevamo come potevano essere attualizzate».
Poi cosa è successo?
«Nel 1975 mi iscrissi al Pci, ho avuto la tessera del Pd fino a due anni fa, e diventai una perfetta benpensante. Fino ad allora da sinistra prendevamo in giro i comunisti perché su ogni argomento prendevano tempo dicendo “facciamo luce"…».
A casa come vedevano il suo impegno?
«Dopo il golpe in Cile del 1973 ebbi una lite pazzesca con mio padre, un vero democristiano, perché sostenevo che il colpo di Stato era anche colpa della Cia, oltre che della Dc cilena. Osò picchiarmi, secondo lui stavo esagerando, e mia mamma lo mandò via di casa per una settimana. Poi ci chiedemmo perdono a vicenda e al suo ritorno gli dissi: “mi sposo”, ma avevo bisogno del suo consenso, all’epoca si diventava maggiorenni a 21 anni e io ne avevo 20, e così è stato. Sapevo che mi apprezzava nonostante fossi una ribelle: ci amavamo molto».
Ha avuto due figli e poco dopo ha lasciato suo marito.
«Mia figlia Viola l’ho avuta a 22 anni e Pietro a 25, quando ero ancora una studentessa. Anche oggi raccomando alle mie specializzande di farlo da giovani, perché li si alleva con maggiore facilità e spensieratezza, e puoi essere una compagna di giochi. Mi separai da mio marito quando il piccolo aveva un anno e mezzo: lui, Riccardo Naj Oleari, avrebbe voluto che continuassi a fare la designer per la sua azienda. Ogni esame che facevo era una lite, perché studiavo di notte. Quando mi chiese di andare a Parigi per aprire uno show-room, e io dovevo dare Pediatria, cercai di resistere ma poi ci andai: gli dissi che era l’ultima angheria che sopportavo, dopo tre mesi mi laureai e lo lasciai».
Vi sentite ancora?
«All’inizio eravamo tutt’e due molto arrabbiati, ma poi siamo rimasti in ottimi rapporti. È vero che ero una donna pesante e che chiedevo troppo a un uomo di quel periodo, ma mi ci sono voluti anni di analisi per elaborare questa conclusione».
Da ginecologa, alla clinica Mangiagalli si è trovata nel bel mezzo della bufera per l’applicazione della legge sull’aborto.
«Era il 1987, l’allora ministro della Sanità Donat-Cattin fu informato che alla Mangiagalli praticavamo degli aborti nel secondo trimestre, contravvenendo alla legge 194. Sequestrarono 1.500 cartelle cliniche, io non fui imputata perché non avevo ancora fatto interruzioni oltre il terzo mese a minorenni. Dieci anni dopo i ginecologi coinvolti vennero tutti assolti: la verità è che la 194 consente gli aborti tardivi in caso di grave rischio psichico materno, che può essere anche conseguenza di una diagnosi di rilevante anomalia fetale. Ero e resto una paladina della libertà di scelta delle donne. Fu un periodo durissimo, ricordo l’appoggio di personaggi come Lella Costa».
Che cosa l’ha spinta, nel 1996, a fondare il pronto soccorso per vittime di violenza sessuale?
«All’inizio pensavamo con i medici legali a un centro per chi avesse subito violenze sessuali, ma ci siamo resi conto che quello era una parte del problema più vasto della violenza domestica, e ci siamo occupati di entrambe le cose. All’origine dell’idea di creare un servizio pubblico c’era stata la legge di quell’anno che ha trasformato lo stupro da reato contro la morale pubblica in reato contro la persona».
Che fisionomia avete dato al nuovo servizio della Mangiagalli?
«Era importante che fosse un servizio pubblico con ginecologhe donne, perché essere visitata da una figura femminile è meno imbarazzante: non siamo giudicanti con le femmine e i maschi – il centro si rivolge anche a loro, in quanto vittime – si trovano meglio con noi perché ci vedono in un ruolo materno. Abbiamo organizzato un corso di formazione intensivo in collaborazione con la Casa delle donne maltrattate di Milano mentre su un altro versante, con l’aiuto di avvocate e avvocati, abbiamo creato un servizio di assistenza legale: allora non c’era il gratuito patrocinio per le vittime di violenza».
Il suo impegno prosegue anche oggi che è in pensione?
«Sì, certo. Sono presidente della cooperativa sociale SVS Donna aiuta Donna, che garantisce aiuti economici e assistenza legale alle vittime di violenza. Stiamo anche realizzando il progetto Cascina Ri-Nascita per restituire autonomia economica e abitativa alle donne disoccupate, con figli minori, che hanno subito violenza».
Rispetto a trent’anni fa ci sono stati miglioramenti?
«Oggi le donne riescono a dare un nome a quel che è successo loro, ma la violenza non è diminuita. Si denuncia un po’ di più rispetto al passato e anche gli uomini stanno cambiando: non credo che dicano più al bar che se picchiano la moglie a casa “lei sa già il perché"… La stigmatizzazione però deve venire da loro, perché se la do io non serve a niente».
Si è mai risposata?
«No. Convivo con Gianni Nardozzi Tonielli da trent’anni, mi ha regalato il mio terzo figlio per scelta, Francesco. Non mi sono sposata così me ne posso andare in qualsiasi momento… Ha 81 anni ed è molto simpatico, se no l’avrei mollato: ha fatto colpo parlandomi di Marx, da economista ne sapeva molto più lui di me».