Robinson, 29 settembre 2025
Intervista ad Adriano Moretti
Ho pensato al grande Lorenzo Accomasso, scomparso un
paio di mesi fa all’età di 91 anni, quando ho incontrato il
trentasettenne Adriano Moretti. Non potrebbero esserci
due figure più distanti. Da una parte, quello che è stato
considerato l’ultimo grande erede dei Mascarello e dei
Rinaldi – mitici produttori di Barolo – e dall’altro il giovane che sembra un modello. Ma in fondo non bisogna lasciarsi troppo ingannare dalle apparenze. Moretti, ha lavorato nella moda, si è riscoperto vignaiolo in quei del Roero. In questo momento è impegnato a vendemmiare il bianco Arneis, a seguire toccherà al Barbera e infine al Nebbiolo.
«È un momento d’oro per questa terra ignorata per
decenni, o meglio oscurata dalle più famose Langhe», dice.
Adriano vive con i genitori e la compagna a Monteu Roero. Ci vediamo nel piccolo ristorante di famiglia, accanto allacantina dei vini che produce. L’insegna dell’azienda ha un nome enigmatico: Bajaj. Era il soprannome che in dialetto
piemontese veniva dato ai contadini tranquilli, pacificati
da ciò che si vedeva dalle modeste alture.
Qui una volta arrivava il mare?
«Restano le tracce sabbiose, i colori ocra e arancio che
distinguono le pareti delle forre selvagge. Tracce di un
mare antichissimo che come per magia evaporò lasciando
burroni, guglie, piramidi di sabbia giallastra. Su questo
mondo circolano ancora antiche leggende».
Di che tipo?
«Vecchie storie contadine che narrano di donne dai poteri
sovrannaturali. Erano chiamate “masche”, figure temute,
come fossero delle streghe, che si aggiravano la notte tra
questi anfratti. Le Rocche sono il cuore selvaggio del
Roero, da cui affiorano sullo sfondo le dorsali collinari.
Credo che nessun paesaggio provochi altrettanta dolcezza,
timore e vertigine come questo».
E sei nato qui?
«Qui, a Monteo Roero, da una famiglia di agricoltori che vi si installò agli inizi del ’900. I miei nonni presero in affitto la casa e il terreno circostante da una famiglia nobile di Milano che veniva a villeggiarvi l’estate. La nonna lavorava al loro servizio. Poi quando mio padre propose di acquistare la casa i proprietari si rifiutarono. Non volevano
venderla a dei contadini».
Come ci riusciste?
«Si presentò mia madre che lavorava alla Ferrero. Questo
bastò a indurli a vendere. Fu uno stratagemma, ma
funzionò».
La famiglia era ricca?
«Non direi, ma i nonni avevano lavorato sodo. Mio padre
valorizzò l’azienda con gli orti e le diverse coltivazioni.
Dando comunque priorità alle fragole che qui sono
un’eccellenza come le castagne o la pera Madernassa».
Che sarebbe?
«Un’antica coltivazione nata come varietà selvatica in
località Madernassa, appunto. La sua produzione fu
interrotta ai primi del ’900 e in seguito, nel rispetto della
tradizione, intelligentemente recuperata. C’è da dire che i
contadini del Roero in principio erano soprattutto
viticoltori. Poi abbandonarono le vigne per diventare
frutticoltori».
Perché?
«Nella seconda metà dell’Ottocento ci fu una grande
epidemia della vite. Le micidiali malattie presero nomi sconosciuti ai più: la crittogama, la peronospora
soprattutto. Fu qui che ebbe inizio la “malora”. Molti
emigrarono, in Europa o nelle Americhe. Quelli che
decisero di restare si ingegnarono nella disperazione.
Scoprendo nei frutteti la ricchezza fino ad allora
insospettata».
E quanto al vino?
«Si abbandonò la coltivazione ma non totalmente. Quando
la produzione fu ristabilita arrivò la crisi degli anni Venti
dello scorso secolo. Fu la filossera a inaridire i vigneti del
Roero, ma il colpo di grazia venne inferto con la crisi dei
prezzi delle uve. Il mondo agricolo cercò ancora una volta
la salvezza nella frutta. In particolare nella coltura dei
pescheti. Luciano Bertello, che ha dedicato alcuni libri alla
storia del Roero, racconta della nascita della civiltà del
pesco».
Fu così importante?
«Importante per una economia che scopriva la
biodiversità, quando non c’era neanche il nome. Era uno
spettacolo vedere – durante la stagione delle pesche -
centinaia di contadini riversarsi nei paesi del Roero, ma
anche del Monferrato e delle Langhe, con le loro ceste
tipiche per mostrare e vendere la propria frutta. Un’intera
economia rurale girò per più di un decennio attorno al
pesco. Si inventarono nuove forme di innesto, si crearono nuove varietà e cosa più importante si preparò
nuovamente la strada per il vino».
Nel senso?
«Di una convivenza che ha aiutato entrambe le colture. Il
pescheto non “rubava” spazio alla vite e quest’ultima era
come se avesse la protezione della santa pesca».
Sei un trentenne ma parli come uno che ha vissuto
molto.
«Bisogna conoscere la propria storia, anche se io l’ho
appresa in ritardo e soprattutto sulla mia pelle. Sono
andato via di qui pensando che non ci fosse un vero
futuro. Non volevo occuparmi di fragole, di pesche e di
pere. E poi avevo studiato scienze politiche. Mi dicevo:
magari trovo un partito che ha bisogno di giovani. E quella
fu la prima delusione».
Provocata da cosa?
«I politici ti parlano di ideali, di cambiamento e poi ti
accorgi che pensano a tutt’altro. Pensano alla lotta per la
loro sopravvivenza».
Ciascuno lotta per non soccombere.
«All’università mi insegnavano che azione politica significa soprattutto pensare al bene comune. Ma se gli interessi privati vengono prima di quelli della tua città o del paese, non so che messaggio mandi alla gente. Detto questo non voglio giustificarmi. Semplicemente mi sono accorto in tempo che non ero tagliato per quel mestiere».
E per cosa eri portato?
«A vent’anni non avevo tutto chiaro nella testa. Ma questo
l’ho capito dopo. Non ho neppure finito l’università. Ho
lasciato a tre esami dalla tesi. Ero arrogante e deluso,
presuntuoso e problematico».
Problematico?
«Non si dice così quando un ragazzo ha difficoltà a
relazionarsi con gli altri? Tra le esperienze fatte c’è stata
quella di indossatore nella moda a Milano. La sensazione
che provavo era di non aver più tempo per me, per i miei
pensieri, per i miei ricordi. Era come se il Roero che avevo
amato da bambino fosse diventato un mondo opaco e
impenetrabile. Sostituito dalla frenesia dei giorni vuoti
riempiti dagli appuntamenti che dovevo rispettare, dalle
persone orrende a cui dover rendere conto, dai consigli
sbagliati, dalla competizione che alla fine rischia di
distruggerti».
Insomma erano le tue fragilità a emergere.«Ci sono periodi bui che a volte tornano. Parlo di
depressione. Non me ne faccio una colpa. A volte mi dico
che soffro della sindrome del centrometrista che guarda
sempre chi ha davanti perché più veloce. Mentre si
disinteressa di quelli che gli stanno alle spalle».
E una tale “sindrome” cosa ti provoca?
«Un senso d’insoddisfazione perenne che mi ha impedito a
lungo di apprezzare i piccoli traguardi della vita. Avere
l’impressione che gli altri vanno più veloci è una
sensazione che alla lunga mi ha fatto perdere fiducia in
quel che facevo».
Forse devi solo provare a non pretendere troppo dalle tue azioni.
«L’ho imparato a mie spese. L’ossessione di arrivare primi
ti consuma dentro ancor prima che nella relazione con il
mondo esterno. Un paio di estati fa ho trascorso mesi
molto duri in cui ho provato a confrontarmi con la mia
famiglia, con gli amici, con la mia compagna, a chiedere
aiuto perché vedevo tutto nero. Alla fine ne sono uscito ma
so che è una condanna che non cade in prescrizione».
Come la contrasti?
«Con le tecniche e i ritrovati che la farmacologia mette a
disposizione. Ma anche con la scrittura. È il solo modo che ho per tirare fuori quello che ho dentro. Non parlo
dell’aspirante poeta o scrittore, no. Sarei ridicolo se mi
attribuissi qualità che non credo di possedere. Parlo di
quel filo invisibile che parte dalle oscurità dell’anima e che
la parola scritta a volte porta alla luce. So che mi fa bene e
considero quel gesto una catarsi, un modo per purificarmi
da certi demoni che a volte mi soffocano».
La scrittura come una via di uscita.
«Dal classico tunnel nel quale improvvisamente hai la
sensazione di svegliarti la mattina».
Quando succede, che ne è del tuo lavoro?
«Faccio di tutto per ricollegarmi al mondo. Certo, si tratta
di una condizione che raccontata così sembra molto
banale. Perfino innocua, se non ci sei passato. Ma quando
ti assale tornano i dubbi e la sensazione di fallimento.
Come se improvvisamente mi stessi polverizzando».
Viene in mente la sabbia, così comune nel paesaggio
della tua terra.
«Non ci avevo mai pensato, ma è un’immagine che mi
corrisponde. Come il tempo che scorre e io lì, in attesa
della prossima clessidra».
C’era un film giapponese tratto da un romanzo di
Kobo Abe: “La donna di sabbia”.
«Non lo conosco».
È la storia di un entomologo che si reca in un villaggio
e incontra una vedova che abita in una baracca e per
sopravvivere deve continuamente spalare la sabbia
che sta divorando la sua dimora. L’entomologo si
troverà coinvolto in questa assurda impresa.
«Come la depressione che si fa buio e spegne ogni energia,
così la sabbia tutto divora e copre».
È un accostamento possibile.
«Di solito l’immagine a cui penso è il pugno di granelli che
sfugge dalle dita, l’inesorabilità del tempo che fugge via.
Ma è un’angoscia che per fortuna non conosco. Dopotutto
preferisco pensare ai colori della sabbia che il fiume
Tanaro ci ha lasciato dividendo il Roero dalle Langhe».
Vi divide il colore del vino: il bianco del Roero dal
rosso delle Langhe.
«In realtà la vera divisione è tra la sabbia del Roero e
l’argilla delle Langhe. Due modi segreti di dare ricchezza
alla terra. E ovviamente al vino: Arneis, che poi è il
Nebbiolo bianco, ma anche il rosso del Nebbiolo, il
Dolcetto e il Barbaresco. Mario Soldati diceva che la sabbia di questo territorio dà il garbo e un profumo quasi
malinconico ai nostri vini. Ma una malinconia leggera che
a volte sfiora l’ebbrezza. Sono i vini che ho deciso di
produrre. Vini non diversi da quelli delle Langhe, ma
meno strutturati. È il nostro destino provare a essere
leggeri».
A proposito di scrittori, il Roero non ha avuto il suo
Fenoglio.
«Ma Fenoglio è tanto loro quanto nostro. Tanto di Alba
quanto di Bra che è la nostra “capitale”. Non è più il Tanaro a dividerci. Semmai è la visione del futuro. A volte penso a personaggi come Gaja, Ceretto, Farinetti. Penso a Carlin Petrini che ha predicato meravigliosamente il verbo della lentezza e mi ha fatto ricredere sulle forza della velocità. Ciascuno di essi ha avuto la capacità di esplorare il futuro, lo ha immaginato ostinatamente come qualcosa di bello e possibile. Non avrebbero realizzato il loro meglio senza questa dote, senza aver creato una loro storia che fosse da esempio. Noi abbiamo avuto Matteo Correggia, senza dubbio il più grande personaggio del Roero. Ma
sfortunatamente ci ha lasciati a causa di un incidente nel
2001. Quando nessuno ci credeva puntò decisamente sulla
qualità dei suoi vini. Il suo Ròche d’Ampsèj ha ridato
un’anima al nostro Nebbiolo. Ecco, vorrei che il salto
generazionale, tu citavi Lorenzo Accomasso, fosse colmato
da questo rispetto per la tradizione che si rinnova ma non
tradisce il passato. Lo fa rivivere e un po’ lo reinventa al
passo con i tempi».