repubblica.it, 29 settembre 2025
“Un gol che neanche alla PlayStation”, trent’anni fa nasceva il gioco che ha cambiato il gergo del pallone
In principio la PlayStation era maschio. Il PlayStation. Sul serio. Così dicevano le prime cronache del tempo al suo arrivo in Europa, quando veniva ancora trattata come un oggetto misterioso. Sette milioni di famiglie nel mondo le avrebbero aperto le porte di casa nel giro di due anni, una penetrazione nel mercato più veloce di quella dei videoregistratori e dei telefonini. Si prese il 40 percento del business, portò il gruppo Sony fuori dalle secche in cui era stato spinto dalla sopravvalutazione dello yen e dalla frenata dell’elettronica, cominciò a diventare molto di più. Un’icona di uno stile, una scheggia di tempo.
Oggi che diventa una signora di trent’anni, sono chiare le tracce delle sue molte vite. È stata l’oggetto che poteva riassumere una stirpe. Come a suo tempo la minigonna. “Generazione PlayStation”, titolò Repubblica per definire la Under-21 di Tardelli nel 1997. È stata l’amabile sbandata di moda che gli adulti in una fase poterono confessare senza vergogna. Eugenio Finardi ammise di essersi preso una lombaggine, faceva le cinque del mattino e ci aveva pure scritto una canzone, Amami Lara, perché la PlayStation era soprattutto l’eroina di Tomb Raider. Antonio Banderas disse che non giocava a briscola, ma l’elettronica sì, cavolo, gli piaceva.
Poi – col tempo – il brand è diventato sinonimo di console in generale e di videogame calcistico. E in esso si è incarnato il male. Il male per le mamme disperate: “Mio figlio non studia, gioca sempre alla playstation”. Il male per gli allenatori: “I ritiri non servono più a fare gruppo, stanno sempre alla PlayStation” [Carlo Ancelotti, 2004]. Il male per i businessman: “Il nostro primo avversario nel campionato del tempo libero è la playstation” [Peter Moore, ceo del Liverpool, 2019]. Il male per i sociologi, per gli psicologi, per i tuttologi. Il male per gli ex calciatori, per i professionisti dell’ai miei tempi, per gli stropicciatori delle adolescenze altrui.
Il male addirittura per gli ortopedici. Nel 2005 Alessandro Nesta si prese una tendinopatia e la gente fermava Gattuso per strada per chiedergli se fosse vero che era stato il joystick. Frase attribuita a Ezio Vendrame, il George Best del Tagliamento: “Buttate nel cesso le vostre playstation e rinchiudetevi nei bagni con un giornaletto”. Sergio Bonelli la definì uno svago “diretto, facile, digeribile”. Il giovane Marchisio raccontò di scegliere sempre la Juve, “e modifico subito la faccia che mi hanno fatto: non mi somiglia tanto”. Per descrivere il ragazzo ideale, Antonio Conte disse di Didier Deschamps che “non beveva, non fumava, non giocava alla playstation”.
Il Ct Luciano Spalletti impose la loro espulsione dalle camere di Coverciano. Aveva trovato un paio dei suoi a notte fonda svegli là davanti, il luogo della perdizione o si dovrebbe dire dell’evasione: al carcere minorile di Stoke on Trent, nel nord dell’Inghilterra, per i detenuti tra i 15 e i 17 anni, il premio per buona condotta consisteva in videogame e console.
È diventata un sinonimo di bellezza al posto di Eurogol [“Sembrava un gol alla playstation”, Gigi Buffon sul 2-0 del Milan alla Samp, ottobre 2003]. Ma poi è diventata pure sinonimo di vanità, narcisismo, calcio velleitario [“La PlayStation è un’altra cosa”, Alberto Cavasin, 2002]. È diventata un termine di paragone quando l’attore interista Paolo Rossi disse con invidia del milanista Ronaldinho che “neanche alla Playstation è possibile inventarsi un giocatore così”. Non era vero. Lo avevano inventato e lo avevano fatto uguale. Marco Amelia un giorno gli parò un rigore e spiegò che “dopo averlo affrontato virtualmente nelle sfide alla Playstation conosco a memoria ogni suo gesto”. Arsène Wenger sosteneva che Messi fosse “un giocatore da PlayStation”, e dunque in questo caso il termine si riprendeva un’aura di nobiltà. Essere da PlayStation significava essere imprendibile. Era il massimo. Il Walhalla. Le Iene chiesero una volta a Pessotto dove si giocasse in Italia il calcio migliore e quello rispose: “Nella mia playstation”.
Kazunori Yamauchi disse che nessuno era certo alla Sony che avrebbe funzionato. Era nata per imitare il calcio, ma poi è stato il calcio a imitare lei. Un anno e mezzo fa, Slovacchia-Austria con Christoph Baumgartner e Germania-Francia con Florian Wirtz furono sbloccate entrambe entro 6-7 secondi dalla palla al centro, con un’azione che tempo prima il videogame aveva considerato un glitch, una anomalia, un errore di sistema. Lo hanno corretto. Ma la più strabiliante contaminazione tra palco e realtà è arrivata quando una funzione speciale del gioco faceva valere doppio un gol segnato alla fine di un’azione con almeno dieci passaggi. Era un atto politico. Sanciva la superiorità morale del tiki taka. Per fortuna non se ne sono accorti gli italianisti. Altrimenti trent’anni alla playstation glieli davano di galera.