repubblica.it, 29 settembre 2025
Trecento Biennali d’arte contemporanea nel mondo. Perché così tante?
Ne sono state contate trecento: trecento biennali d’arte contemporanea, tra quelle di maggiori dimensioni, sparse nel mondo e nei cinque continenti. In queste settimane sono in corso le biennali di Istanbul, di Liverpool, di Sao Paulo in Brasile, la biennale di Bogotà in Colombia e quella di Bukhara in Uzbekistan, alla sua prima edizione. A New York si è aperta, itinerante e in esilio, la biennale di Gaza, Palestina.
Perché tante biennali? E per chi? E quando il baricentro del network ha iniziato a spostarsi dalla vecchia Europa e dai suoi già consolidati e ora traballanti canoni a quelle a torto considerate le periferie culturali del pianeta? L’Africa, il mondo arabo, l’Asia. E con quali obiettivi?
Creare, anche dal nulla, una biennale d’arte contemporanea si è dimostrato un efficace esercizio di soft power: in una visione geopolitica, è uno strumento di inserimento o di riposizionamento diplomatico in un’area regionale sovranazionale e sullo scacchiere mondiale. Questa è la risposta più diffusa. Vale certamente per l’Uzbekistan o i paesi del Golfo. Per le due Cine, per la Corea del Sud.
Il motore, per lo più istituzionalmente pubblico, in casi sempre più ricorrenti è privato: fondazioni, mecenati, conglomerati industriali controllati da una sola famiglia.Ma, scendendo a una dimensione urbana, amministrativa, dar vita a biennali o rafforzare le esistenti, è anche lo strumento per ripensare le città, per riscoprirne le trame architettoniche, per restaurare, recuperare, riconvertire durevolmente. Per imprimere nuovo slancio turistico.
Pioniera, in questo, è stata Manifesta, con radici olandesi, fondata e concepita da Hedwig Fijen come un incubatore di cambiamento sociale e urbano, biennale e nomade: nel 2024 ha fatto tappa a Barcellona.
Okwui Enwezor, critico di nascita nigeriana, il primo curatore di origine africana a dirigere Documenta di Kassel nel 2002 e poi la Biennale di Venezia nel 2015, sosteneva che «ogni expo è uno spazio di energia civile, d’immaginazione collettiva». «Una macchina che produce pensiero», là dove la frammentazione e l’opacità dell’attualità politica non lo consentono più. La macchina delle biennali affronta temi volentieri rimossi e altrettanto urgenti: colonialismo e neocolonialismo, razzismo, discriminazione sessuale, neo-schiavismo, ambientalismo, migrazioni, guerre.
Sentimenti e concept condivisi possono restituire l’impressione che le biennali si assomiglino tutte. È vero solo in parte. Molte di esse agiscono come leve di emancipazione e promozione nei confronti degli artisti del territorio, in direzione contraria all’omogeneizzazione: come da sempre fa Dak’Art, nella capitale del Senegal, consacrata all’arte del continente e della diaspora africani. O guardando a un’intera civiltà, come la giovanissima biennale d’arte islamica di Gedda, Arabia Saudita, che quest’anno ha celebrato la sua seconda edizione con prestiti anche dai Musei Vaticani.
Per il tramite degli artisti, la biennale di Istanbul, che Christine Tohmé dedica alle vittime di tutte le guerre in corso, richiama prepotentemente l’attenzione su ciò che sta accadendo in Medio Oriente: non solo immaginazione, quindi, ma militanza, denuncia, testimonianza, riparazione.
Creare biennali significa anche, non da ultimo, spostare l’orizzonte della scena artistica e aprire nuovi mercati. Jean-Hubert Martin è stato il primo, nel 1989 e con la mostra “Les Magiciens de la Terre” al Centro Pompidou di Parigi, in egual misura acclamata e contestata, a dimostrare l’esistenza di artisti formidabili fuori dai recinti canonizzati dell’Occidente.
Cosa che non riguarda i soli artisti. Trentasei anni fa il comitato scientifico dei “Magiciens de la Terre” era composto esclusivamente da europei e con una sola curatrice. Oggi una scelta del genere è inverosimile. La prima e più antica Biennale è, naturalmente, quella di Venezia: fondata nel 1895, ha fornito il modello a tutte le sue sorelle. Che ne hanno smentito la formula, quella che vede affiancata a una selezione internazionale in cui si dispone la più ampia visione critica e autoriale, la costellazione di una novantina di padiglioni nazionali.
La biennale di Sao Paulo, che l’ha seguita a partire dal 1951, ora alla trentaseiesima edizione, è dedicata in memoriam a Koyo Kouho, la prima curatrice africana della Biennale di Venezia per l’edizione 2026, scomparsa lo scorso maggio.
Il 1° novembre prossimo si inaugura la quattordicesima biennale di Taipei, a Taiwan, curata da Sam Bardaouil, libanese, e dal tedesco Till Fellrath, condirettori dell’Hamburger Bahnhof di Berlino (la dodicesima era stata co-diretta da Bruno Latour, sociologo francese scomparso nel 2022).
Il 6 novembre si apre la Art Paiz di Città del Guatemala: fondata nel 1978, è la sesta più longeva al mondo e non ha mai cancellato un’edizione. Si è da poco conclusa la tredicesima biennale di Berlino, anch’essa guidata da una curatrice, l’italo-indiana Zasha Colah. In Asia, il primato spetta alla biennale di Gwangju, Corea del Sud, che si tiene dal 1995.
La biennale di Sharjah, uno dei sette Emirati Arabi, è da più d’una decina d’anni affidata alla trentacinquenne sceicca Hook Al-Qaimi, che vi ha aggiunto anche la direzione dell’expo di Sydney, in Australia. Ha dichiarato che il suo modello è Okweui Enwezor, ma certamente l’ha ispirata la sceicca Al-Mayassa bin Hamad Al Thani, sorella dell’emiro del Qatar, alla quale si devono le politiche e le infrastrutture culturali dello stato del Golfo Persico.
Infine: per chi tanta proliferazione di biennali? Non è disponibile una proiezione o un calcolo attendibili del numero di persone che la rete delle expo sposta nel mondo. Né di quale sia la proporzione tra il pubblico locale e il pubblico internazionale itinerante dall’una all’altra. Ma se, come accade, sono più numerose le biennali che nascono di quelle che si spengono, il saldo – in un modo o nell’altro, materiale o immateriale – non può che essere in attivo.