Corriere della Sera, 29 settembre 2025
Stravolgere la religione (per fini politici)
Mentre il mondo scivola verso il rischio catastrofico di un’altra grande guerra, con una irresponsabilità di atti e minacce che ci avvicinano al superamento del confine di non ritorno, prende sempre più corpo una impetuosa corrente d’odio che attraversa sia la scena internazionale sia quella dei singoli Stati, Italia compresa.
E uno dei collanti di questa crescente e rabbiosa intolleranza sembra diventato la croce. Non una qualsiasi: la croce di Cristo.
Non c’è un reato per l’uso improprio della parola Dio. Non esiste tribunale che sanzioni chi travisa a propri fini la pietra d’angolo del suo messaggio evangelico: ama il prossimo tuo come te stesso. Non c’è legge che eviti di trasformare il Padre in padrone. E così assistiamo al fenomeno di ideologie che, proprio nel nome di Dio, si cimentano a benedire posizioni e scelte che niente hanno a che fare con lo spirito evangelico e molto con una concezione autoritaria, gerarchica, dei rapporti sociali e anche delle relazioni politiche, belliche o commerciali che siano. Cuore di questa nuova chiesa, cristiana d’ispirazione ma tribale e pagana di fatto, sono gli Stati Uniti del secondo Trump, con un imperatore che si sente anche papa (si è fatto ritrarre in quella veste un po’ per celia e un po’ no), con la folla di fedeli Maga, con i suoi predicatori, come lo era Charlie Kirk, asceso a una specie di santità laica dopo essere stato oscenamente assassinato.
Diceva, l’influencer Kirk, di voler salvare l’America. In realtà voleva salvarne una soltanto: la sua, bianca, armata, impaurita. Una volta arringò la platea sostenendo che «Dio non ci ha fatti tutti uguali, ci ha dato ruoli diversi». Un’altra che «le minoranze devono ricordarsi di essere ospiti in questa casa». Spesso smussava queste uscite il giorno dopo, ma intanto il messaggio era arrivato. Kirk parlava alla pancia di un Paese che vede nella diversità una minaccia, che trasforma la fede in un’arma e la Bibbia in una bandiera. Un Paese che ha trovato in Trump non un leader ma uno specchio. Quel Trump che continua a invocare Dio non per chiedere perdono ma consenso, con un messaggio primitivo e potente: Lui è dalla nostra parte.
Difficile dire come faccia a stabilirlo, facilissimo capire il tornaconto di questa indebita appropriazione. Una legittimazione del proprio potere che trascende, letteralmente, il consenso elettorale. Un’investitura divina che cancella ogni traccia di responsabilità democratica e che vanta non illustri ma innumerevoli precedenti, dalle Crociate al «Gott Mit Uns», Dio è con noi, impresso sulle fibbie del Terzo Reich.
È il catechismo delle nuove destre, con la rispolverata trinità «Dio, patria e famiglia», che fa proseliti anche in Europa, dalla Francia di Marine Le Pen all’Ungheria di Orbán, con la premier italiana che rivendica con furore la propria cristianità, il vicepremier Salvini che ha attraversato una fase, ma sembrerebbe superata, di baci esibiti alla medaglietta della Madonna, e una maggioranza che impone al Parlamento una seduta in memoria e onore di Charlie Kirk, che nessuno conosceva prima che venisse assassinato ma che è rapidamente assurto nell’eletta schiera dei martiri della Fede.
Ancora, dal vangelo apocrifo dello stesso Kirk: «Dio ha creato l’America per essere una nazione cristiana e chi vuole cambiarla si mette contro il piano divino». Un’altra volta, rivolto ai manifestanti per i diritti civili: «Non abbiamo bisogno di più uguaglianza, abbiamo bisogno di più ordine». E ci risparmiamo i sermoni sulla prevalenza genetica dei bianchi sui neri o variamente colorati.
Non c’è davvero più religione in questa appropriazione indebita della religione più praticata al mondo e nella sua diabolica distorsione in qualcosa che sta agli antipodi di quanto predicato dal Cristo e incarnato nella sua Passione. Come se le Tavole dei Dieci Comandamenti, con il loro profondo e inderogabile insegnamento a fare il bene, non fossero incise sulla pietra ma vergate con inchiostro simpatico. Gli ultimi saranno i primi, altro che «American First». Ma quasi tutto è lecito in politica, anche condurci come pecorelle smarrite verso orizzonti angoscianti ma sotto sgargianti bandiere benedette da non si sa quale divinità, piegata alla propaganda, convocata nei comizi come un testimone compiacente.
Dall’8 maggio scorso, siede sul soglio di Pietro il pontefice Leone XIV, al secolo Robert Francis Prevost da Chicago, Illinois. Il primo papa statunitense a ricoprire quella carica. Viene da domandarsi che cosa prova a vedere il Dio che rappresenta su questa Terra tirato per la tunica per cause che esulano dalla sua onnipotente divinità e che, comunque, sembrerebbero molto lontane dalle indicazioni di fratellanza, uguaglianza, amore per l’altro e per la natura, predicate dal Verbo. Dovrebbe valere una specie di tutela contro ogni tentativo di contraffazione e forse proprio lui, il Papa americano, potrebbe mandare una colomba viaggiatrice al suo conterraneo Donald, con un messaggio legato alla zampetta: «Non nominare il nome di Dio invano. Secondo comandamento. Grazie». E soprattutto non usarlo come stemma sull’ariete che minaccia di travolgere l’ultima trincea della democrazia, della pace.