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 2025  settembre 29 Lunedì calendario

«A casa con Wojtyla e Madre Teresa. Il Papa le disse: devi mangiare di più. Bergoglio mi chiamò dopo il Conclave “Vede in che pasticcio sono finito?”»

Papa Wojtyla era una discreta forchetta.
«Apprezzava la buona cucina. Un giorno, a casa nostra, seduto davanti a una tazzona di caffelatte, rimproverò affettuosamente Madre Teresa, che quasi non toccava cibo. “Lei spizzica come un uccellino, troppo poco. Deve mangiare di più, è il successore di Pietro che glielo ordina”
. Soli, mia moglie ed io, con due santi a colazione! Un giorno invece dei fedeli gli mandarono una torta gigante. “Avete visto quanto bene vogliono al Papa?”, scherzò. Da malato aveva perso l’appetito di un tempo, però beveva grandi bicchieri di succo di papaya che gli avevano raccomandato».
La zuppa di Ratzinger.
«Quando veniva a cena da noi, da cardinale, gli preparavamo una minestra di barbabietole viola, la sua preferita, ci diede la ricetta una suora tedesca».
Semplici ricordi di vita quotidiana di Guzmán Carriquiry Lecour, 81 anni, avvocato e alto funzionario uruguaiano, per 48 anni in servizio presso la Santa Sede, attraversando ben cinque pontificati, da Paolo VI a Francesco. Questa sua particolare e intensa esperienza nella Curia romana («Un grande dono»), tra aneddoti, incontri e riflessioni profonde sulla dottrina e la vita della Chiesa, l’ha riversata nel libro: Il testimone. Mezzo secolo di un laico nelle stanze vaticane (Cantagalli).
Da Montevideo a San Pietro.
«Arrivai il 1° dicembre 1971, da una terra alla fine del mondo. Avevo 27 anni, sposato da uno e mezzo con la mia Lídice Maria, un figlio piccolissimo, Juan Pablo. Doveva essere un incarico temporaneo, ci rimasi fino al 2019, primo laico nominato Capo Ufficio in Vaticano, quindi sottosegretario e segretario – ora ce ne sono tanti, io fui un pioniere – per poi diventare ambasciatore dell’Uruguay presso la Santa Sede fino a marzo 2025».
A Palazzo San Callisto.
«Ero emozionato, in quelle sale maestose. A un tratto notai un’immagine di Nostra Signora della Guadalupa, patrona di tutta l’America Latina, lo presi come un segno e mi raccomandai a lei».
Scrive: «Non ho vissuto 48 anni in un covo di ladri né di lotte di potere. Men che meno in un antro di omosessuali inconfessi».
«Nel libro esprimo una visione realista e non idealizzata della Curia romana, però molto diversa dalla vulgata che la rappresenta come un centro di cospirazioni, complotti e vizi. La maggioranza delle persone, dai cardinali agli uscieri, lavora con senso ecclesiale e onestà. In Vaticano, come in ogni burocrazia, esistono amore e invidia, santità e corruzione, ma su tutto sovrabbonda la grazia».
Eppure si racconta di trame, tradimenti e corvi.
«Ad ogni fine pontificato si creano situazioni difficili, come accadde a Paolo VI – grande timoniere del Concilio – che dovette affrontare una fase di tumultuoso rinnovamento di una Chiesa che appariva stanca. Ci volle il sorriso dolce di Giovanni Paolo I per cambiare l’aria. I corvi? C’è sempre qualche sleale chierico interno ciarlatano. Un vecchio monsignore tedesco mi diede un prezioso consiglio: “Qui vive un 10 per cento di santi, un 10 di demoni ma l’80 per cento sono poveri peccatori come te e me, mendicanti della grazia di Dio Bisogna dunque guardare sempre i volti dei santi”».
Spiati.
«Il sostituto della Segreteria di Stato Giovanni Benelli un giorno mi confidò: “Sa, Carriquiry, i nostri telefoni sono controllati da sette potenze straniere”».
Papa Luciani morì dopo 33 giorni dalla sua elezione. Qualcuno sostenne che fu avvelenato con il cianuro.
«Assurde dicerie».
Il successore.
«Quando annunciarono il suo nome, Karol Wojtyla, in piazza San Pietro c’era gente che credeva fosse africano. Io invece lo conoscevo bene. Due volte l’anno partecipava all’assemblea plenaria del Consiglio dei Laici, io e Lídice eravamo una coppia giovane, ci aveva adottato, ci voleva bene. Spesso ci portava a cena con suoi amici polacchi. Non capivamo una parola. Le serate finivano sempre con canti patriottici e di montagna».
A pranzo con Sua Santità.
«La prima volta fu con proprio Giovanni Paolo II. Preparava il viaggio in Messico, mi fece un sacco di domande. Di fronte a lui parlavo con molta libertà. A volte ero quasi impertinente. Poi tornato a casa facevo la siesta per scaricare l’emozione».
Le gite di nascosto.
«Il mio superiore, il cardinale polacco Stanislao Rylko, ogni martedì spariva e tornava tutto rosso, lui che era pallido. Per stuzzicarlo gli chiedevo: “Eccellenza, è stato al mare?”. Sapevo benissimo che era andato in montagna con il Papa».
Wojtyla era di compagnia.
«Aveva grande senso di convivialità e un umorismo fine. Ratzinger non era il tipo, invece papa Francesco raccontava tante barzellette».
Il grande raduno.
«Disse: “Nel 1984 voglio organizzare un incontro mondiale dei giovani”. Mancavano pochi mesi. L’ultimo era stato nel 1950. Restammo storditi. Timorosi. Ci spiegò: “La spinta propulsiva del ’68 si è esaurita, le ideologie non trascinano più, i ragazzi rischiano di conformarsi al consumismo e all’apparenza, è il momento giusto per porli davanti alla presenza di Cristo”».
Fu un successo.
«Ci chiedevamo: “Verranno?”. Arrivarono in 450 mila. Pioveva. Li sistemammo pure nei sotterranei di San Callisto. La centralina andò in tilt, i cardinali rimasero al buio, ma con un sorriso accogliente. Giovanni Paolo II fu il padre di generazioni di giovani trascurati, senza maestri. Li abbracciava tutti con il suo amore».
Il viaggio in Russia.
«Per il funerale di Andropov. Mi chiamò il cardinale Casaroli: “Mettiti pesante, fa 18 gradi sotto zero”. Viaggiai insieme al professor Lejeune, ospiti dell’aereo presidenziale di Sandro Pertini, che durante le 4 ore di volo giocò a carte con Enrico Berlinguer e Giulio Andreotti. Dalla seconda classe li sentivo ridere. Io invece discutevo di teologia con il comunista Paolo Bufalini, incredibile, sapeva tutto sui padri della Chiesa».
Ospitalità russa.
«Nella stanza del vecchio hotel Mosca sussurravamo, ci spiavano. Non potevamo uscire da soli, non c’era telefono. Prima della parata, per colazione ci diedero tre bicchieri di vodka con del pesce affumicato. Tre ore di sfilata nella Piazza Rossa. Mi si congelarono i piedi, non ho mai bevuto tanto tè caldo. L’indomani, davanti alla salma, contro le loro raccomandazioni, ci siamo fatti il segno della croce».
Il Papa tedesco.
«Lo chiamavano “panzer” o “l’inquisitore”, quante sciocchezze. Ratzinger era un uomo aperto a ogni dialogo, mite, umile, perfino impacciato nei rapporti con le persone. Ma ascoltarlo era un godimento, il più grande teologo vivente eletto Papa».
Le dimissioni.
«Non me le aspettavo. All’inizio pensai: “Quando Dio ti affida delle responsabilità ti dona anche la grazia per portarle a termine”. Poi ragionai con più umiltà, capendo che la decisione scaturiva da un dialogo misterioso con il Padre».
L’amico Bergoglio.
«Lo conoscevo molto prima che diventasse Papa. Quando veniva a Roma ci chiamava sempre : “Vengo a cena, non preoccupatevi, mangio quello che avanza”. Non gli ho mai dato del tu, detestavo chi si prendeva troppa confidenza».

Uruguaiani e argentini sono rivali nel calcio.
«Sì, ma siamo come fratelli. Papa Bergoglio, per un fioretto, non guardava più la tv. Ma si informava dei risultati con una guardia svizzera».

Lei era sicuro che sarebbe stato eletto.
«Nel conclave precedente, con un cenno della mano, aveva indicato di non votarlo, a favore di Ratzinger. “Stavolta vedrai che non potrà dire di no”, indovinò mia moglie».
Vi telefonò subito dopo.
«Disse: “Vede in che pasticcio mi hanno messo? Dovevo sfogarmi con gli amici...”».
E ora?
«Ripongo devozione, speranza e fedeltà nel nuovo Papa. Viva Leone XIV!»