Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  settembre 28 Domenica calendario

Ex Ilva, fallita la gara di Urso: ora chiusura o gestione statale

Il riassunto della situazione lo lasciamo a Rocco Palombella, segretario della Uilm, la sigla più rappresentativa dentro l’ex Ilva: “La gara per la vendita si è conclusa, purtroppo come prevedibile, con un fallimento totale”, che certifica “l’incapacità di Urso e del governo di rilanciare effettivamente gli impianti” come pure quella dei tre “commissari che si sono dimostrati inadeguati”. Ora, “per evitare la chiusura totale dell’ex Ilva e un disastro ambientale e occupazionale senza precedenti c’è solo una strada: la nazionalizzazione”.
Si può entrare nei dettagli, ma la faccenda è tutta qua: il ministro Adolfo Urso ha buttato 14 mesi in una gara che non poteva che dare questo esito, anche se si fosse conclusa in modo meno farsesco rispetto alle offerte ridicole di due fondi stranieri con poca o nulla esperienza nella siderurgia e di altre otto che puntano allo spezzatino della fu Italsider. L’unica soluzione alle viste, chiusura a parte, è che lo Stato prenda in mano l’impianto per il tempo che servirà a decarbonizzarlo ricorrendo a manager esperti: bisogna decidere subito perché l’ex Ilva perde una cinquantina di milioni al mese e i soldi (pubblici) in cassa bastano fino a novembre, forse dicembre.
Siamo all’ultimo atto di una storia iniziata tredici anni fa, nel 2012, quando la magistratura tarantina sequestrò per la prima volta gli impianti per inquinamento e il governo Monti provvide a disinnescare la grana con un apposito decreto e la promessa che l’acciaieria di Taranto sarebbe stata in regola entro il 2015: 13 anni e una dozzina di decreti Salva-Ilva dopo siamo ancora lì, all’incapacità dello Stato di garantire la salute ai suoi cittadini e lo strategico ciclo integrale dell’acciaio alla sua manifattura. Il disastro odierno, certo, è antico. Parte dal passato remoto dell’industria di Stato e dalla scelta di piazzare la fabbrica in città, passa per la gestione predatoria dei Riva e, da ultimo, per la scelta di dare il gruppo in mano ad ArcelorMittal, il quale – al di là degli interventi confusi dei governi Conte – ha fatto quel c’era da aspettarsi: si è preso un competitor, la più grande acciaieria d’Europa, e poi l’ha sfruttato per qualche operazione intragruppo mentre lasciava andare in malora impianti che non servivano a un colosso globale in sovra-capacità produttiva.
È a questo punto che arriva il nuovo commissariamento, gestito politicamente da Urso negli ultimi tre anni. Il compito era risollevare e rendere molto meno inquinante un gruppo malmesso e una fabbrica, quella di Taranto, sostanzialmente fuori legge. Il progetto green presentato dai commissari è ambizioso, in sostanza fuori dalla portata di un privato. Non a caso le trattative coi possibili acquirenti si sono sempre arenate attorno a una domanda semplice: chi paga? Il futuro dell’ex Ilva, secondo l’ultima versione del piano, dovrebbe essere questo: nell’arco di otto anni la produzione a Taranto avverrà solo con tre forni elettrici e non più bruciando carbone; questi forni elettrici andrebbero alimentati con Dri – il cosiddetto “pre-ridotto”, pellet a elevato contenuto di ferro – che a sua volta verrebbe realizzato in impianti, tre o quattro, da costruire da zero a Taranto o, in subordine, altrove (Gioia Tauro la favorita). Perché tutto questo funzioni servono grandi quantità di gas per alimentare gli impianti Dri e far marciare i forni elettrici, ma meno lavoratori rispetto alla fabbrica a carbone. Servono pure tanti soldi: il costo finale dipende da vari fattori, ma a spanne è difficile scendere sotto i sei miliardi di euro.
Resta la domanda: chi paga? Anche perché questa specie di rivoluzione siderurgica andrebbe realizzata, a Taranto, mentre si gestisce un’enorme acciaieria ferma e che perde soldi tutti i giorni: un solo altoforno funzionante, un altro appena riavviato e finito sotto sequestro per un incidente, oltre 4.500 dipendenti in cassa integrazione su un organico che non arriva a ottomila unità (se ne discuterà lunedì a Roma), la produzione ferma a 2 milioni di tonnellate annue mentre la contestata Autorizzazione integrata ambientale di luglio consente di arrivare a sei milioni, cioè la quota da cui la fabbrica è redditizia. Questo ammesso che esista ancora una clientela per l’ex Ilva: l’acciaio tarantino in questi anni è stato sostituito da quello asiatico a basso costo, riprendere quote di mercato non sarà facile. E ora, non bastasse il resto, entrano in vigore i nuovi permessi a inquinare Ue: un conto da 300 milioni l’anno.
È in questo contesto – rosso da decine di milioni al mese, 5,4 miliardi di debiti, impianti inquinanti che vanno rimessi in sesto mentre si paga la decarbonizzazione, incerta situazione di mercato e salasso europeo alle viste – che il volenteroso Urso nel luglio 2024 s’è messo in cerca di un compratore. Un anno l’ha perso dietro a Baku Steel, piccolo gruppo azero che era interessato più ad avere una nave rigassificatrice a Taranto che a produrre acciaio (l’Italia è il primo cliente del metano azero): l’intesa s’è arenata attorno alla solita questione dei soldi.
A luglio, scomparsi gli azeri, Urso ha riaperto la gara fino a venerdì a mezzanotte e il risultato, come ovvio, è disperante. Gli indiani di Jindal, l’ultima speranza del governo, alla fine hanno preferito puntare sulla Germania e sul tavolo restano solo due offerte per l’intero gruppo. Peccato che arrivino da due fondi, gente che compra per rivendere, che vogliono l’ex Ilva gratis: uno, il family office americano Flacks Group, non s’è mai occupato di acciaio, e si presenta coi piccolissimi slovacchi di Steel Business Europe; il secondo, l’olandese Bedrock Industries, ha alle spalle solo l’investimento nella canadese Stelco, che era in procedura fallimentare e oggi è finita a un gruppo Usa.
Le altre otto offerte riguardano pezzi dell’ex Ilva – ad esempio gli impianti del nord (Marcegaglia) o le attività ancillari (Toto) – ma commissari e governo devono dare priorità a quelle per tutto il pacchetto: probabilmente si concentreranno su quella di Bedrock, già scartata l’anno scorso, pur di dare un calcio al barattolo della fu Ilva e prendersi un po’ di tempo. La scelta, però, adesso è solo quella da cui siamo partiti: la nazionalizzazione o, presto o tardi, la chiusura.