il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2025
Dazi, le aziende Ue si sono già piegate a Trump
Pur di non perdere il mercato Usa, sottoposta al rischio dei dazi l’industria globale si è presentata a Canossa al 1600 di Pennsylvania Avenue, indirizzo della Casa Bianca. Per ottenere un accordo generale sulle tariffe al 15%, dopo l’intesa politica raggiunta il 27 luglio tra la presidente Ursula von der Leyen e il presidente Donald Trump, la Ue il 21 agosto ha promesso a Washington investimenti europei per 600 miliardi di dollari negli States entro il 2028, come parte di una strategia di riequilibrio delle relazioni commerciali. Ma molte multinazionali europee avevano già risposto alle minacce di Trump con un’accelerazione degli investimenti diretti negli Usa. Sinora però gli effetti latitano: lo dimostra il disastro creato dalle mosse caotiche di Trump che stanno danneggiando investimenti per decine di miliardi in alcuni settori produttivi, come le energie rinnovabili e la filiera delle batterie per auto. Quanto agli effetti sull’occupazione negli Usa, dai dati sinora non emerge alcun miglioramento, mentre alcuni analisti credono che i danni potrebbero superare i benefici.
Il reshoring, la ricostruzione di base produttiva nella manifattura che Trump sta cercando di riportare negli Usa, è la risposta che Washington impone per tentare di arginare l’enorme deficit commerciale degli Stati Uniti. Nel 2024 gli Stati Uniti producevano solo il 15% dei beni globali, ma ne consumavano il 29%, mentre la Cina ne produceva il 32% e consumava il 12%. Un fenomeno che dura da decenni e impatta sull’occupazione manifatturiera Usa, calata del 34% a soli 13 milioni dal massimo storico del 1979, quando valeva 19 milioni di posti.
Tra i settori che per primi hanno risposto ai diktat di Trump c’è l’auto. Molte case automobilistiche europee, già alle prese con il calo delle quote di mercato e dei volumi in Cina, il più grande mercato automobilistico al mondo, hanno rivisto e anticipato i piani di investimento per limitare gli effetti dei nuovi dazi Usa, ma in un clima di notevole incertezza. Il fatto è che gli Stati Uniti dipendono dall’import di autoveicoli. Il Messico nel 2024 ha esportato negli Usa circa 2,25 milioni di auto, la Corea del Sud 1,6 milioni, il Giappone 1,5 e la Germania ne ha spediti oltre l’Atlantico per un valore di 26 miliardi di dollari. Nel 2025 Bmw ha confermato di aver investito 1,7 miliardi di dollari negli Stati Uniti, di cui 1 miliardo a Spartanburg (Carolina del Sud) e dall’anno prossimo vi produrrà tre nuovi veicoli elettrici. Il 15 maggio, sei settimane dopo il Liberation Day di Trump, Mercedes-Benz ha annunciato che nel 2027 intende lanciare il nuovo modello Glc nel suo stabilimento di Tuscaloosa, in Alabama, aumentando la gamma prodotta negli States. Volkswagen sta attualmente investendo 2 miliardi di dollari in un nuovo stabilimento produttivo nella Carolina del Sud per produrre dal 2027 Suv e pick-up ibridi. La casa automobilistica tedesca ha recentemente stretto una partnership strategica con il produttore statunitense di veicoli elettrici a batteria Rivian e prevede di investire 5,8 miliardi di dollari per sviluppare e produrre dal 2028 negli Usa una nuova gamma di veicoli a batteria.
Oltre a quelle farmaceutiche, come spiega l’articolo a fianco, anche le aziende chimiche europee hanno risposto all’appello. Il 22 aprile Bayer ha completato un’espansione da 44 milioni di dollari a Myerstown, Pennsylvania. Il colosso tedesco Basf a fine giugno ha confermato gli investimenti negli Usa, dov’è presente da decenni. Sul fronte dell’energia, il 24 settembre il gigante spagnolo Iberdrola ha svelato che concentrerà il suo mega piano di investimenti da 58 miliardi di euro entro il 2028 negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Ben 16 miliardi andranno agli Usa, dove però Iberdrola punta soprattutto agli Stati governati dai Democratici come New York, Massachusetts, Connecticut e Maine, concentrandosi principalmente su infrastrutture di rete. Il 6 marzo Siemens ha annunciato un investimento da 285 milioni di dollari in nuovi impianti di produzione di apparecchiature elettriche in Texas, e California. Il 13 maggio Siemens ha comunicato un investimento da 150 milioni di dollari inclusa la riconversione di uno stabilimento dal Messico a Palo Alto, in California, e l’apertura di centri di distribuzione in New Jersey. A settembre l’azienda ha concluso un accordo con Tsmc per accelerare sviluppo e produzione di circuiti in Texas. Il totale investito negli Usa dal colosso tedesco negli ultimi anni supera quota 10 miliardi. La multinazionale francese Schneider Electric ha annunciato investimenti negli Stati Uniti per oltre 700 milioni di dollari da qui al 2027, raggiungendo oltre 1 miliardo nel decennio. A settembre l’azienda ha annunciato di puntare a sbloccare finanziamenti per 7,5 miliardi di dollari per progetti di resilienza energetica negli Stati Uniti. Il colosso elettrico italiano Enel il 25 maggio ha firmato un accordo per aumentare la capacità rinnovabile netta consolidata negli Usa di 285 MW, con un investimento di circa 50 milioni di dollari. Engie, multinazionale francese dell’energia, ha firmato accordi per sistemi rinnovabili in Texas.
Ma non tutto va secondo i piani delle aziende. Durante la presidenza Biden, grazie agli incentivi fiscali Usa molte imprese del settore auto europee e asiatiche, ma pure statunitensi, avevano programmato investimenti per decine di miliardi nella costruzione di impianti negli Usa per produrre batterie. Tra queste anche Stellantis, partecipata dalla famiglia Agnelli e presieduta da John Elkann, che sta investendo 6,3 miliardi di dollari in due fabbriche di batterie per veicoli elettrici nell’Indiana. Come per il settore delle energie rinnovabili, l’amministrazione Trump sta rimettendo in discussione il sostegno federale. Molti progetti così sono sottoposti a una gigantesca spada di Damocle.
Il fatto è che le politiche di rilocalizzazione di Trump hanno stimolato significativi annunci di investimenti e reshoring in alcuni settori, ma hanno anche generato incertezza economica, perdita di posti di lavoro tradizionali e aumento dei costi per imprese e consumatori. Sinora i dati sull’occupazione Usa non mostrano alcun beneficio dai diktat della Casa Bianca: dall’annuncio dei dazi nel Liberation Day di Trump, il 2 aprile, le statistiche ufficiali Usa aggiornate ad agosto mostrano una perdita totale di 42 mila posti di lavoro nel settore manifatturiero. Intanto gli economisti calcolano che le tariffe costeranno alle famiglie americane in media 2.400 dollari all’anno in più. E mentre l’incertezza dilaga in settori come i chip e la farmaceutica, la Cina risponde colpo su colpo a Washington tagliando gli acquisti di raccolti agricoli.