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 2025  settembre 28 Domenica calendario

Intervista a Chiara Caselli

Con il tempo, dice Chiara Caselli, «ho imparato a “surfare”, cioè a seguire l’onda. Penso che il mio traguardo più importante sia proprio nel riuscire ad accettare il fatto che ci si possa esprimere in tanti modi diversi, regia, recitazione, fotografia. È bello scivolare sulla corrente, farsi tenere a galla dall’acqua». L’ultima impresa di Caselli, bolognese, classe 1967, è un corto diretto da Anselma Dell’Olio, intitolato La Luce nella crepa, sceneggiato da Manuela Jael Procaccia, dedicato ai caregiver, «silenzioso esercito di 7 milioni di persone che assistono familiari malati o non autosufficienti» e che faticano a ottenere il giusto riconoscimento di un ruolo così cruciale: «L’idea è di Anna Mancuso, presidente di Salute Donna ODV, che ha vissuto in prima persona l’esperienza». Dopo la presentazione all’ultima Mostra di Venezia, nella sezione “Venice Production Bridge”, Caselli si è concessa qualche tuffo a Giannutri («mi piace perché non c’è niente, niente macchine, niente motorini, niente strutture ricettive») e adesso è ospite del “Lucca Film Festival” dove fa parte della giuria incaricata di giudicare i cortometraggi insieme a Lamberto Bava e Fabrice du Welz.
Ha iniziato giovanissima, lavorando con grandi nomi, da Michelangelo Antonioni a Gus Van Sant. Poi ha avuto pause, ritorni, deviazioni. Come mai?
«Se dovessi raccontare il mio percorso direi che non è stato lineare. D’altra parte la vita non lo è. Sicuramente ho iniziato “a palla”, poi c’è stato un rallentamento…».
Dovuto a cosa?
«Dovevo crescere mio figlio, ed ero sola, senza poter contare sull’aiuto di una famiglia che non fosse distante. Non sto recriminando, dico solo che Teo era piccolo, e che, per diversi anni, le mie possibilità di spostamento sono state pari a zero. Ho cominciato a fare altro, fotografie soprattutto, e, nel 2011, ho esposto, partecipando alla Biennale Arte. Recitare è una cosa meravigliosa, ma sono anche convinta che non si debba restare per forza attaccati come cozze per tutta la vita a un unico mezzo espressivo».
Nel ’91 aveva recitato in “Belli e dannati” di Gus Van Sant, con Keanu Reeves. Eravate tutti e due alla Mostra di Venezia, lei con il corto, lui con il suo nuovo film “Dead Man’s Wire”. Vi siete visti?
«Ci siamo scambiati messaggi, volevamo prendere un caffè insieme, ma eravamo sempre impegnati in qualcosa, Gus è un grande artista. Del set di Belli e dannati ho ricordi bellissimi, Keanu Reeves prestante e sicuro di se, io una pischella di 23 anni, tutto molto naturale e con un totale rispetto del mio corpo, insomma nessun imbarazzo».
Nel ’95 è apparsa in “Al di la delle nuvole”, l’ultimo film di Michelangelo Antonioni, diretto in collaborazione di Wim Wenders. Ha dichiarato in varie interviste di non essersi trovata bene. Che cosa successe?
«Durante le riprese non ci furono comportamenti appropriati, avvertivo forte un clima di morbosità. Per fortuna c’era Wim Wenders, che si rese conto del mio disagio e intervenne. E fu di grande aiuto anche Enrica Fico, la moglie di Antonioni».
Con Pupi Avati, bolognese come lei, ha lavorato varie volte, la prima nel “Signor diavolo”, poi in “Lei mi parla ancora”, e ancora nell’"Orto americano”. Su cosa si basa la vostra intesa?
«Ringrazio Avati per la fiducia che mi ha dato. Nel Signor diavolo ero una signora aristocratica, Clara Vestri Musy, ho lottato per avere quel ruolo, Pupi voleva darmene un altro, diceva “sei solare, allegra, carnale”, insomma, secondo lui non era giusta per rendere quell’ombra che caratterizza il personaggio. Alla fine si convince, mi da la parte, non aggiunge tante indicazioni, mi dice solo che devo parlare veneto e che devo mettere paura. Arrivo sul set, e so che devo interpretare un monologo di sei minuti. Pupi mi dice subito “Caselli, come stiamo messi con la memoria? “. Ho risposto “bene”, e lui, “allora giriamo, motore”. Mi sono innamorata di nuovo di questo mestiere».
Che cosa le piace di Avati?
«Ha un pensiero libero, anche quando può risultare scomodo».
Nel 2001 ha recitato con Paolo Sorrentino, nel cortometraggio “La notte lunga”. Come è andata?
«Era un corto molto bello, lui è stato delizioso e premuroso. Aveva un’inventiva pazzesca, ogni scena un’idea, si capiva subito che sarebbe andato avanti, che non si sarebbe fermato».
Com’era la Chiara Caselli degli inizi?
«Ero una bambina, ed ero anche veramente selvatica, avevo molta paura degli incontri. Mi sono bruciacchiata un po’ di volte, adesso ho imparato a gestirli molto meglio. E poi oggi le cose sono cambiate, abbiamo un giovane cinema italiano di livello eccellente, con nuove leve pazzesche. Ho visto Elisa di Leonardo Di Costanzo e ho trovato che Barbara Ronchi sia veramente strepitosa nel rendere l’insondabilità del personaggio».
Ha rimpianti?
«Di sicuro, se mi metto a pensare, se mi guardo indietro, uno lo trovo. Ma preferisco evitare, non servirebbe a niente».
Che cosa l’ha spinta a girare “La luce nella crepa”?
«Mi ha colpito la storia di Anna Mancuso, la sua vicenda personale, di sorella che ha dedicato se stessa all’assistenza del fratello, malato oncologico. Poi, avvicinandomi al tema, ho scoperto un sacco di cose, il vuoto legislativo che caratterizza certe situazioni, i problemi, anche burocratici, che devono affrontare i caregiver, i malati, le persone che hanno bisogno di assistenza. E poi la necessità di arrivare a una soluzione concreta e collettiva. Penso che, del lavoro dell’attore, facciano parte opportunità importanti come questa, entrare in altri mondi e conoscere cose di cui magari non si sapeva nulla».
Qual è il suo ruolo nel corto?
«È la storia di due sorelle, io interpreto Anna, accompagno mia sorella malata in una breve vacanza alle Terme di Sirmione, per riprendersi un po’, dopo un ciclo di terapie. All’inizio del corto chiamo l’ufficio dove lavoro per chiedere qualche giorno in più di vacanza, ma non riesco ad ottenerli perché ho già terminato quelli che avevo. Spiego che li ho usati per poter assistere mia sorella, ma niente, non è possibile fare eccezioni e, siccome non ci sono altre vie d’uscita, decido di licenziarmi. È un racconto che serve a mettere in luce questioni importanti, su cui c’è poca informazione, questioni che vanno risolte. Il corto le affronta senza retorica e senza pietismo».
Con la regista Selma Dell’Olio vi conoscevate prima di girare il cortometraggio?
«Non ci conoscevamo, mi ha chiamata, e ho accettato perché mi interessava il progetto. Il caregiver rappresenta il ponte tra la malattia e la vita».
Qual è l’incontro più importante della sua esistenza?
«Quello con mio figlio. Ora ha 21 anni, studia psicologia, quello con lui è stato un incontro assolutamente totalizzante. E che, di fatto, è ogni volta diverso e sconvolgente. Tutti gli altri incontri, compresi quelli amorosi, le passioni, le amicizie, si svolgono in un modo che, alla fine, si ripete, è prevedibile».