Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  settembre 28 Domenica calendario

Nordio apre la campagna referendaria "Con il no, Stato sottomesso alle toghe"

Catania, sala gremita del XX congresso delle Camere penali. Quando sullo schermo compare Carlo Nordio, l’attesa si trasforma subito in tensione. Il Guardasigilli non entra in punta di piedi sul referendum per la separazione delle carriere dei magistrati, anzi. Esordisce con un avvertimento che suona come una condanna: «Se dovesse vincere il “no”, non sarebbe una vittoria del centrosinistra, ma delle Procure. Torneremmo a una Repubblica sottomessa o condizionata dai magistrati». Una frase che spacca la platea e che viene accolta da un coro di “buuu”.
Non è una gaffe, non è un eccesso. È il copione che Nordio ha scelto. L’ennesima drammatizzazione di un conflitto che attraversa la sua intera esperienza da Guardasigilli e che ora si avvicina al redde rationem. Del resto, il calendario è chiaro: entro novembre la riforma sulla separazione delle carriere arriverà alla seconda approvazione del Senato, la quarta lettura complessiva. Poi, salvo colpi di scena, il referendum. Probabile in primavera, inevitabile nella strategia di una maggioranza che ha bisogno di polarizzare e mobilitare.
Ecco perché le parole di Catania non spiazzano affatto i vertici del governo. Anzi, Giorgia Meloni e i suoi sanno che il tono scelto da Nordio è il preludio di una campagna che si preannuncia feroce. Lui stesso, pur fingendo prudenza, lo lascia intendere: «I tempi del referendum non sono pronti». Ma il messaggio opposto arriva forte e chiaro. Il ministro è già in modalità campagna elettorale, pronto a cavalcare la sfida come fosse la battaglia identitaria per eccellenza.
Il resto è un crescendo polemico. Nordio ribadisce che occorre porre fine a un equilibrio fragile, accusa le Procure di condizionare la politica. Poi il passaggio più esplosivo: il riferimento a Nicola Gratteri. Definito con sarcasmo «miglior testimonial della separazione delle carriere», il procuratore di Napoli diventa il bersaglio di un affondo studiato. Nordio parla del suo programma su La7, dove Gratteri ha bollato la riforma come «inutile e dannosa». «Non lo critico affatto – ribatte il Guardasigilli – anzi considero il suo intervento un’eccellente occasione per dimostrare la realtà della separazione delle carriere. Perché in un ordinamento democratico e liberale chi deve tacere è il giudice, mentre il pubblico ministero, come voi avvocati, può parlare quando e come vuole».
Un rovesciamento di prospettiva che incendia la platea. In sala si alzano mormorii e proteste. E fuori, nel dibattito politico, piovono le critiche. Durissima Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd: «Un ministro dovrebbe essere cauto, soprattutto quando parla di chi da decenni vive sotto scorta. Serve prudenza, non slogan».
Ma Nordio non arretra. Anzi, il suo lessico da arringa conferma l’impostazione di fondo: per la maggioranza, questa è la “madre di tutte le riforme”. L’obiettivo è cambiare i rapporti di forza all’interno della magistratura e costruire attorno al referendum un fronte politico compatto, anche a costo di alzare i toni. Una direzione chiara che, per l’esecutivo, è diventata palese dopo l’affondo della Procura di Roma contro la capo di Gabinetto di Nordio Giusi Bartolozzi per il coinvolgimento nel caso Almasri.
Catania, insomma, diventa così il laboratorio di quella che sarà la campagna dei prossimi mesi. Tra forzature retoriche e provocazioni mirate. Nessuna mediazione, nessuna zona grigia. La battaglia si giocherà sul terreno del conflitto frontale.
E allora la domanda resta sospesa, anche dentro la maggioranza: fino a che punto conviene incendiare la campagna? Per ora, Nordio non ha dubbi. La fiamma va alimentata, perché solo così si può costringere il Paese a scegliere. La «Repubblica sottomessa» da lui evocata è già lo slogan di una battaglia che non è più soltanto giuridica. È politica fino in fondo.