Corriere della Sera, 28 settembre 2025
Tutta l’acqua che si può (e si deve) bere
Non siamo tra gli esseri viventi con la maggiore percentuale di acqua corporea. Le meduse, per esempio, sono composte per il 98% di acqua, una percentuale simile a quella della lattuga. Tuttavia, anche nel nostro corpo è un nutriente essenziale, indispensabile al metabolismo e non sintetizzabile in quantità sufficienti dall’organismo.
«L’acqua rappresenta il 90% del peso corporeo di un feto, l’80% di un neonato, il 70% di un bambino, il 60% di un adulto e scende al 55% in un anziano. Gli organi vitali, come cuore, polmoni, cervello, reni, fegato, ne hanno intorno all’80%. Anche la cute, l’organo più esteso del corpo, ne è ricca», spiega Matteo Cerri, professore di Fisiologia all’Università di Bologna.
Una raccomandazione comune in chiave di benessere è bere otto bicchieri d’acqua al giorno. Tuttavia, non esiste una quantità ottimale valida per tutti: il fabbisogno dipende da fattori come peso e altezza, attività fisica, condizioni climatiche, stato di salute ed eventuali terapie, abitudini alimentari.
Una revisione sistematica pubblicata su Jama Network Open ha analizzato 18 studi clinici randomizzati, indagando se l’aumento dell’assunzione d’acqua potesse avere effetti terapeutici. Per esempio, nei soggetti in sovrappeso od obesi bere 500 ml d’acqua prima dei pasti, per un periodo compreso tra 12 settimane e 12 mesi, è stato associato a una perdita di peso fino al doppio rispetto al gruppo di controllo. «Lo stomaco si riempie e la sua distensione attiva specifici recettori di pressione, i barocettori situati nelle pareti gastriche, che inviano segnali al cervello, innescando la percezione di sazietà – commenta Elena Dogliotti, biologa nutrizionista e supervisore scientifico per Fondazione Umberto Veronesi ETS —. Quando si avverte sete, il corpo è già in una fase iniziale di disidratazione, che diventa più avanzata con sintomi come torpore, sonnolenza e leggere vertigini. Questo è particolarmente rilevante per gli anziani, in cui il senso della sete è spesso attenuato. È quindi importante mantenersi idratati anche in assenza di sete, privilegiando non solo acqua, ma anche alimenti ricchi di liquidi, come verdura, che dovrebbe occupare metà del piatto a ogni pasto, frutta, brodi e zuppe. Per rendere più gradevole l’idratazione si può aromatizzare l’acqua con pezzi di frutta, una spruzzata di limone, fiori eduli o optare per tisane, infusi o tè, meglio deteinato per il consumo durante tutta la giornata, senza zuccheri aggiunti. Un utile indicatore dello stato di idratazione è il colore delle urine: se sono molto chiare, significa che il corpo è ben idratato».
Ulteriori dati dello studio indicano come una migliore idratazione sembri contribuire al controllo della glicemia nei pazienti con diabete di tipo 2, a ridurre il rischio di infezioni urinarie ricorrenti nelle donne, ad alleviare la frequenza e l’intensità del mal di testa in chi soffre di episodi ricorrenti, ad aumentare leggermente la pressione arteriosa diurna nei soggetti con ipotensione.
Tuttavia, i ricercatori sottolineano che le prove attualmente disponibili sono limitate e spesso basate su un numero ridotto di studi per ciascun aspetto analizzato. Più solide, invece, sono le indicazioni relative all’effetto protettivo dell’idratazione nei confronti dei calcoli renali: bere una quantità d’acqua sufficiente a garantire una diuresi giornaliera di almeno 2 litri ha ridotto del 50% il rischio di recidive nell’arco di 5 anni rispetto al gruppo di controllo.
«Un’idratazione non ottimale è una delle cause più comuni della formazione di calcoli renali, insieme ad alcune abitudini alimentari errate», conclude Pietro Manuel Ferraro, professore ordinario e direttore della Scuola di Specializzazione in Nefrologia all’Università di Verona. «Al contrario, assumere un’adeguata quantità di acqua fa sì che i reni aumentino la produzione di urina, rendendola più diluita. Questo riduce la probabilità che le sostanze che formano i calcoli si leghino tra loro e diano inizio alla formazione dei calcoli o causino la crescita di quelli eventualmente già presenti. Questo fenomeno è ben documentato già in uno studio clinico condotto a Parma negli anni ’90».