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 2025  settembre 28 Domenica calendario

Intervista ad Annamaria Colao

Q uando la professoressa Annamaria Colao scoprì di essere la numero uno al mondo per le malattie dell’ipofisi, era già da anni in cima a quell’Ad Scientific Index che misura l’impatto delle pubblicazioni scientifiche a livello globale. Lei, però, non se n’era mai accorta. Quel giorno, era coi suoi ricercatori del Dipartimento di Endocrinologia del Policlinico Federico II di Napoli: «Mi dicevano: indovina chi è il primo! Io inizio a citare i colleghi americani uno dopo l’altro. Niente. Non era nessuno di loro. I miei insistevano: indovina. E io: ma chi può essere? Ma chi è?». Oggi, ricorda: «Non avrei mai detto che ero io, pensai a uno scherzo».
E ora che ha spostato il lavoro clinico e di ricerca soprattutto su metabolismo e obesità, resta da primato nell’Endocrinologia: è prima in Italia ed è nella top ten europea, oltre a essere tra primi duemila scienziati al mondo di qualunque categoria. È anche Cavaliere della Repubblica, vicepresidente del Consiglio superiore di Sanità, ha una Cattedra Unesco per l’educazione alla salute e allo sviluppo sostenibile, è stata anche la prima donna a vincere il Geoffrey Harris Award come miglior neuroendocrinologa d’Europa. Tutto senza mai lasciare Napoli, sferruzzando la sera (e non, vedremo, come antistress) e firmando anche libri divulgativi di successo, come La dieta degli ormoni. Ora, sempre per Sonzogno, per la collana «Scienze per la vita» diretta da Eliana Liotta, ha scritto Il digiuno su mi sura. Perché ormai, sembra che la metà degli italiani pratichi il digiuno, però spesso in versione «fai da te». Invece, spiega lei, «ognuno ha il suo digiuno e non ne esiste uno valido per tutti. Il digiuno è un codice potentissimo, non a caso tutte le religioni ne hanno favorito qualche forma, ma vanno seguiti protocolli validati scientificamente».
Che cos’ha di così potente il digiuno?
«Influenza non solo il peso, ma ritmo del sonno, fertilità, tono dell’umore, stress. Il digiuno protegge il cuore perché abbassa pressione, colesterolo cattivo e trigliceridi; riduce il grasso viscerale; previene il diabete; allontana i tumori e rafforza il sistema immunitario. E per quanto riguarda il cervello, riduce l’infiammazione, migliora la lucidità, abbassa il rischio di malattie neurodegenerative. Inoltre, abbassa lo stress ossidativo e favorisce i processi di rigenerazione cellulare. Va solo applicato in modo corretto e nel libro ci sono tutte le tabelle per farlo».
La prima è la regola delle tre Q: vale a dire?
«Indica quando mangiare, quanto e quali cibi. Il “quando” riguarda la cronobiologia: ci sono alimenti, come i carboidrati, che il corpo usa meglio al mattino o a pranzo e che la sera andrebbero evitati, perché di notte non li consumiamo e li trasformiamo in grasso. Il “quale” si riferisce alla tipologia: carboidrati, proteine, grassi, fibre, vitamine, da bilanciare adeguatamente. Infine, il “quanto” è la quantità, da calibrare caso per caso».
Che differenza c’è fra digiuno intermittente, digiuno 5:2, dieta mima-digiuno?
«Quello intermittente si pratica mangiando solo in una fascia oraria, per esempio fra le otto e le 18 o fra le nove e le 19: vuol dire fare colazione, pranzare e saltare la cena. Dà i maggiori vantaggi, perché evita la digestione notturna e attiva i processi di rigenerazione, ma i cosiddetti “gufi”, che hanno l’orologio biologico spostato in avanti, traggono benefici anche cenando e saltando invece la colazione. Poi, c’è il protocollo 5:2: due giorni a settimana di forte restrizione calorica, intorno alle 500-600 calorie, e cinque giorni liberi. O il 3:4, con lo stesso concetto. La dieta mima-digiuno, invece, restringe l’alimentazione per cinque giorni consecutivi ogni tre mesi: è adatta a chi ha un peso normale e vuole stimolare la rigenerazione cellulare».
E lei quale digiuno segue?
«Faccio solo colazione e pranzo. Non siamo costruiti per grandi cene: i nostri avi facevano colazioni abbondanti e poi lavoravano fisicamente. Oggi, la vita sociale privilegia il pasto serale, ma il metabolismo non lo capisce e lo patisce. Comprendo che per alcuni sia complicato: agli amici attori di teatro che finiscono a mezzanotte e poi vanno al ristorante, dico: vi capisco, poveri voi, però dal punto di vista biologico non funziona, quindi arrangiatevi, mangiate prima, che volete da me? Mica le regole le faccio io?».
Chi non deve mai digiunare?
«Bambini e adolescenti, donne in gravidanza o che allattano, chi soffre o ha sofferto di disturbi alimentari, chi usa insulina. E chi ha malattie croniche gravi o tumori allo stadio terminale».
Come si diventa una scienziata fra le più quotate al mondo?
«La verità è che non ho mai rincorso classifiche, non mi sono mai data traguardi, ho intrapreso 20 o 30 progetti insieme anche senza essere sicura che ci fossero i fondi, ho sempre detto: facciamo, vediamo dove arriviamo. Poi, portavo i risultati ai congressi internazionali, ho girato tutto il mondo: li spiegavo e gli altri li sperimentavano, vedevano che funzionavano e mi citavano nei loro articoli. E ha fatto la differenza essere un clinico: i casi li ho visti davvero, non portavo in giro solo numeri incolonnati. E ho avuto sempre una grande squadra. Da soli, si va veloci, ma non si va lontano».
Perché è rimasta a Napoli e non è diventata uno dei tanti cervelli in fuga?
«Perché amo questa città follemente. Ho avuto offerte incredibili dagli Stati Uniti: casa, macchina, scuola per mia figlia, palestra… Ma anche se da noi fare ricerca è per temerari, la qualità della vita che avevo qui non l’avrei trovata altrove. E, a Napoli, mia figlia è cresciuta con quattro nonni, cugini, zii. In più il mio ex marito, Stefano Caldoro, era legato mani e piedi al suo distretto elettorale, è stato anche governatore della Regione. Ma non ho mai pensato che il mio lavoro, per quanto bello, dovesse prendersi tutto questo spazio».
Come arriva la vocazione per la medicina?
«Mio padre era medico, mia madre biologa e farmacista. Io, a 14 anni, volevo fare l’archeologa, sognavo le tombe di Alessandro Magno. Mi vedevo a scavare, il mio animo è sempre stato quello del ricercatore, ma mio padre me lo sconsigliò perché servivano grandi finanziatori. Crescendo, pensai a Medicina, ma mia madre: “Tu puoi fare tutto perché sei una che studia, però non fare Medicina, guarda tuo padre che ha passato tutta la vita sui libri, è stancante, e poi finisci a fare le notti, è scomodo e poi è difficile…”. Quando arrivò a “è troppo difficile”, mi dissi: e va bene, farò Medicina».
Come ha conciliato carriera e famiglia?
«Non ho passato con mia figlia tutto il tempo che avrei voluto, ma l’ho portata con me a congressi e convegni: in America, Brasile, Argentina, Australia, in tutta Europa. Ha visto coi suoi occhi che studiare è importante e che nulla arriva senza sacrifici. Ora, è avvocato, ha 34 anni, sta per discutere il dottorato».
Perché lei si è spostata dall’ipofisi a metabolismo e obesità?
«Perché oggi l’obesità è la vera pandemia. Lavoro sulle nuove terapie farmacologiche: semaglutide, tirzepatide. Sono il presente, non più il futuro. E nei prossimi dieci anni ne avremo di ancora più efficaci: cancelleremo una parte dell’obesità dal mondo».
Molti usano queste terapie per perdere due chili. Giusto? Sbagliato?
«È diventata una moda: faccio presto, tolgo due chili. Non è intelligente, è meglio riprendere il controllo dell’alimentazione, ma non è neanche così pericoloso».
Come ha vissuto la nomina a Cavaliere della Repubblica?
«Mi ha emozionato soprattutto perché è stato un mio paziente a proporre la mia candidatura. Lo seguivo da quando lui aveva 18 anni e io 24. Aveva un tumore gravissimo e una forza d’animo incredibile. Ogni volta che penso al cavalierato, penso a lui: è proprio vero, il bene che fai ti torna indietro in modi inaspettati».
Cos’è la cattedra Unesco di cui è titolare?
«È nata per caso. Seguivo un progetto privato su ambiente e salute, poi finirono i fondi e un collaboratore disse: proponiamolo all’Unesco. Risposi: ma quelli fanno cultura, educazione, capirai che gli importa… Però, ci provammo. Con mio stupore, l’Unesco l’ha preso. Fra le altre cose, per la Giornata Internazionale delle Donne e delle Ragazze nella Scienza, l’11 febbraio, assegniamo borse di studio a giovani di quartieri disagiati. Non mi chieda come troviamo i fondi».
Glielo chiedo.
«Vendendo maglioni fatti a mano. Coi ferri, sono brava. La sera, e ogni volta che sono in aereo, prendo i ferri e faccio pullover».

Le capita mai di riposare?
«Due weekend al mese. Anni fa, ho fondato il Campus Salute e due fine settimana al mese piantiamo tende nelle piazze e visitiamo chi passa di lì: 40mila visite all’anno con colleghi volontari di tutte le specialità, senza fondi pubblici. Non sa quanti infarti e tumori troviamo... Ora, ho appena fatto un campus per gli italiani di New York nella chiesa di St. Patrick».
La sanità pubblica sta male come si dice?
«Resta una delle migliori al mondo, ma è in sofferenza e non solo per i tagli: oggi i farmaci costano venti-trenta volte più che quindici anni fa; le tecnologie hanno amplificato i costi e la ricerca ha trasformato malattie mortali in croniche: è una conquista, ma il prezzo è enorme. Il punto è ammalarci di meno, fare prevenzione».
Ha mai avuto la sensazione di dover dimostrare più dei colleghi uomini?
«Sempre. Quando rimasi incinta, i miei due direttori dissero: l’abbiamo persa, farà la mamma. Risposi: “Vabbè, se non mi vedete per un po’, io almeno ho un motivo, i maschi che stanno qua e latitano che motivo hanno?”. La mia soddisfazione è stata entrare in un gruppo di giovani in cui tutti i giorni mi dicevano: lascia perdere, non entrerai mai. E io: “Sì, hai ragione, ma comunque ci vediamo domani”. Alla fine, sono diventata il loro direttore».