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 2025  settembre 27 Sabato calendario

Il grande fratello

«Tu pensi di aver cinque posti in macchina. Invece ne ha sei. A bordo hai un tizio invisibile, seduto su un seggiolino che ti spia. Sempre». Lo dice chiaro e tondo il Generale Umberto Rapetto, precursore delle indagini telematiche, fondatore del Gat Nucleo Speciale Frodi Telematiche, per undici anni comandante di quella task force che ha meritato l’appellativo di «sceriffo del web». E aggiunge: «Già il fatto che sul cruscotto ci siano le spie è un elemento fondamentale per capire. Spia di nome e di fatto: adesso l’attribuzione etimologica è corretta».
Già perché ora le «spie», spiano sul serio. Ascoltano, registrano, si collegano a Google (fu proprio Rapetto a smascherare come l’algoritmo catturi le nostre conversazioni). Non è fantascienza, è statistica. In Italia, circa 18 milioni di veicoli – il 45% del parco circolante – sono già connessi, pronti a chiacchierare con produttori, server remoti e chissà chi altro.

L’auto connessa è una realtà. Raccoglie milioni di dati: stile di guida. Poi i dettagli di sicurezza: airbag, Abs, cinture allacciate. Dati di manutenzione, posizione geografica. E non dimentichiamo l’infotainment, che sa quali canzoni ti piacciono, quali stazioni radio preferisci. Addirittura, dati biometrici: il tuo battito cardiaco, il livello di stress, la stanchezza che ti appanna gli occhi dopo ore di guida.
L’auto ti conosce meglio di chiunque altro. E a che servono tutti questi tesori digitali? Be’, per il bene tuo, naturalmente. Servizi personalizzati: percorsi ottimizzati, playlist pronte, climatizzatore che si regola da solo sulle tue preferenze. E a livello aggregato, ricerca e sviluppo: i dati di milioni di guidatori aiutano a costruire auto più sicure, più efficienti. Tutto fluido, intuitivo, comodo. Ma dietro questa cortina di benessere c’è una rete invisibile: i tuoi dati volano verso server remoti, analizzati, monetizzati.
Chi li gestisce? Chi decide come usarli? Mistero. La normativa balbetta. C’è il Gdpr, che dovrebbe proteggere la tua privacy come un cavaliere medievale, garantendo che i dati personali non finiscano in mani sbagliate. Poi il Data Act, che regola l’accesso ai dati dei dispositivi connessi, promuovendo trasparenza e concorrenza. E l’AI Act, che frena l’intelligenza artificiale ad alto rischio, inclusa quella nelle auto. Ma applicarli al settore automobilistico? Un rebus. Chi genera i dati? Chi li usa? E il proprietario del veicolo? La risposta è un’alzata di spalle.
Le case automobilistiche rivendicano il controllo, lasciando conducenti a bocca asciutta. E gli aggiornamenti software Over-The-Air? Fantastici: l’auto si aggiorna da sola, come un telefono. Ma chi verifica che non aprano porte a hacker? Le revisioni periodiche non controllano il software: un bug potrebbe annidarsi lì, invisibile come il nostro sesto passeggero, pronto a causare guai. In fondo, è il paradosso della modernità: vogliamo tutto connesso, tutto smart, ma poi ci lamentiamo dello sguardo fisso su di noi. L’auto che ci spia è solo l’ultimo capitolo di una saga dove la comodità ha un prezzo, e quel prezzo è la nostra intimità svenduta. —