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 2025  settembre 27 Sabato calendario

Intervista a Riccardo Cocciante

«Non ho mai amato le celebrazioni, me ne sono sempre tenuto a distanza. Per gli 80 qualcosa farò, ma sarà privato. Però, sì, questo è un traguardo da ricordare e forse da festeggiare un po’ di più». Riccardo Cocciante il prossimo 20 febbraio compirà 80 anni. Una cosa per celebralo, per quella data, ci sarà: la docufiction Il mio nome è Riccardo Cocciante, che manderà in onda Rai. Il regista Stefano Salvati sta finendo il montaggio in questi giorni. Intanto, a IMAGinACTION 2025, di cui il cantante e compositore sarà ospite d’onore in apertura il 2 ottobre, ne verrà presentata un’anteprima. Salvati definisce questo lavoro «un viaggio a 360° nel «Pianeta Cocciante», immersione inedita nella storia di «artista ben poco conosciuto per quanto è sempre stato schivo su di sé e sulla propria vita privata». Ma che lui conosce bene fin dagli Anni 70 e di cui diresse i videoclip di alcune canzoni: due di quelli inclusi nel documentario saranno proiettati al Festival di Ravenna in versione integrale e restaurata 4K, Vivi la tua vita e Se stiamo insieme, del 1991.
Cosa le ricordano questi titoli, Cocciante?
«In genere le mie canzoni sono allegoriche. Così è per Se stiamo insieme, celebrazione di una cosa importante (se non la più importante) come lo stare insieme e amarsi. Un valore da riscoprire, direi. In questo caso poi è interessante anche la storia del videoclip, che venne rimontato e cambiato. Al festival si vedrà finalmente la versione originale (anche quella presente sul web non lo è, ndr)».
E Vivi la tua vita?
«Questa canzone invece è davvero unica, perché appunto non è allegorica, ma è addirittura autobiografica. Era l’augurio che facevo a mio figlio appena nato di una vita migliore, sapendo quanto questo fosse già allora difficile in un mondo attraversato da tensioni e violenza. Esprimevo quello che qualunque padre vorrebbe per il proprio figlio».
Desiderio realizzato? Il neonato di allora, è ormai un adulto.
«Che vive negli Stati Uniti e fa il grafico. Speravo che non seguisse la mia strada, poiché so quanto sia sempre difficile per un figlio d’arte mettersi sulle orme del genitore: è fonte di frustrazione e tensioni. Pochi ci riescono. Un artista è sempre unico e per un figlio diventano inevitabili i confronti. Ma fortunatamente David amava il disegno e la sua arte è la grafica».
Nel doc si parlerà della sua infanzia esotica?
«Inevitabilmente. Sono nato in Vietnam, metà italiano e metà francese: fin da piccolo difficile da collocare, un ibrido. È una differenza importante, cui tengo in modo particolare, e che mi rende unico. Credo che il compito di ogni artista sia proporre qualcosa di differente, che la gente comune non si aspetta e non ha».
Ibrido ancora oggi?
«(ride) Sono il più francese degli italiani e il più italiano dei francesi. Con il tempo ho imparato a gestire questa mescolanza, fino a sentirmi del tutto a mio agio in questa molteplicità (anche di ispirazioni) che arricchisce. La musica bianca e quella nera e hai il rock, lo swing... È il bello della musica: non essere di un posto ma ispirarsi a tutti, perché solo così si può innovare».
A 11 anni però i suoi tornarono in Europa. Veniste ad abitare a Roma. Come fu per lei?
«Cresciuto a Saigon, una città bellissima e calda, vivevo libero e scalzo con i ragazzini locali. Arrivare a Roma fu uno shock: non parlavo l’italiano, dovevo mettere le scarpe, le cose erano grigie e senza colori. E poi tutti giocavano a calcio: io non sapevo neppure cosa fosse. Assimilare tutto questo fu difficile, inserirmi fu difficile. Fu un momento complicato».
La musica quando entrò nella sua vita?
«Direi molto presto. Mi misi a cantare ancora prima di parlare. Ero un introverso e la musica mi permetteva di comunicare meglio delle parole. E questo pur non avendo fatto studi specifici, ma essendomi improvvisato, da autodidatta. È stata il linguaggio, anzi la lingua, in cui mi sono sempre espresso. L’ho usata per trasmettere emozioni e parlare delle cose che mi interessavano. E infatti, nel mio lavoro, non ho quasi mai scritto le parole, ma solo la musica. Con un’impronta così mia, però, che arrivava subito agli autori dei testi. Così con tutti, Mogol, Panella. Anche di Notre Dame è venuta prima la musica».
Quasi contemporaneamente a lei sulla ribalta musicale si affacciavano con successo Venditti, De Gregori, Gaetano. Sente di appartenere alla cosiddetta scuola romana?
«Per un verso mi sento integrato ma contemporaneamente anche appartato. Non volevo, né ho mai amato appartenere a una categoria. Sono sempre stato a parte. Non ho mai scritto canzoni politiche, per esempio. Però c’era un comune desiderio di cambiamento e di contestazione. Bella senz’anima, per esempio: si sente che la anima un senso di rivolta profondo».
Questa estate il successo del suo tour italiano (ultima tappa, piazza del Plebiscito a Napoli, il 22 settembre: un trionfo) ha dimostrato che il pubblico continua ad amarla. Eppure sono molti anni che non pubblica nulla di nuovo.
«Non lo chiamerei tour, solo poche date in luoghi scelti e simbolici. Tuttavia, sì, è molto tempo che non scrivo nuove canzoni. Ma sto pensando a un nuovo album. Ho iniziato a lavorarci. Quando sarà pronto? Non ho né mi sono dato una scadenza. Diciamo che sto scrivendo».