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 2025  settembre 27 Sabato calendario

"Bocciato due volte, compresi il ’68 da militare Quando svelai la P2 , Forlani si ammutolì"

La confessione arriva prima ancora di iniziare: «Non amo parlare delle mie cose personali – dice Gherardo Colombo mentre sistema i suoi inconfondibili occhiali circolari – questa è proprio un’eccezione». E infatti alla domanda sul primo ricordo l’ex magistrato abbozza un lieve imbarazzo: «Risale al 1948: a Capriano, il paese della Brianza dove sono nato. Avrò avuto due anni. Ci fu, credo, un conflitto nato da vecchie ruggini tra fascisti e antifascisti. Ricordo lo stato di concitazione in paese, mentre a casa i miei genitori confabulavano».
Erano entrambi brianzoli?
«Papà era di Milano, faceva l’ufficiale medico. Alla notizia dell’armistizio del ’43, scappò dal Nizzardo, dove si trovava. Anziché tornare in una città bombardata, sfollò in Brianza, aiutando un medico condotto anziano. Lì incontrò mia madre».
Da piccolo anche lei voleva fare il medico?
«La vista del sangue mi impressionava. E però, del mestiere di papà, mi piaceva il fatto che uscisse anche di notte per aiutare. Volevo anch’io una professione che conciliasse analisi e utilità sociale: così, a 18 anni, scelsi di diventare giudice».
Che studente è stato?
«Bocciato due volte: ero un adolescente inquieto. Mi misi a studiare solo in quinta ginnasio, spinto dalla curiosità intellettuale».
L’università?
«Alla Cattolica. Laurea nel ’69 con Franco Cordero: eccezionale nello scrivere, meno trascinante nel parlare».
Il ’68 italiano nasce proprio in Cattolica. Come lo visse?
«All’inizio ero per l’ordine. Fu il militare ad aprirmi gli occhi: la sofferenza dei giorni trascorsi al Centro addestramento reclute, gli episodi di nonnismo. E poi la conoscenza di persone e ambienti diversi: scoprii che il mondo era anche altro».
Il primo incarico da magistrato?
«A Milano. Ricordo ancora quando una giovane mi chiese un colloquio con suo marito, di cui avevo firmato il mandato di cattura. Cingeva il figlio a sé. Se riesco a trovare una legittimità nel privare della libertà chi ha commesso un reato, ancora oggi non riesco a giustificare la scelta di sottrarre un padre al proprio figlio».
Da giudice istruttore, nel 1981, scoprì insieme a Giuliano Turone la lista dei 962 iscritti alla loggia massonica P2.
«Ministri, magistrati, parlamentari, capi di servizi di sicurezza. E, assieme a quella lista, 32 buste sigillate: ognuna delle quali conteneva all’incirca una notizia di reato».
Speravate di trovare così tanto?
«No. Da subito provammo a preservare la genuinità degli atti. Poi cercammo di far sapere alle istituzioni la pericolosità della loggia. Tentammo col presidente della Repubblica Sandro Pertini, ma in quei giorni era fuori dall’Italia. Così cercammo il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani».
Vi ricevette?
«Ci accolse il suo segretario, il prefetto Mario Semprini: uno degli iscritti alla P2. Quando raccontammo a Forlani della lista, per due minuti non riuscì ad articolare una parola».
Qualche mese e l’inchiesta fu spostata a Roma.
«La prima grande delusione, ma non la più cocente. Mi scosse di più la fine di un’altra indagine, sui fondi neri dell’Iri: anche quella trasferita a Roma, gli imputati principali prosciolti, il resto disperso in poche condanne minori. Se non fosse stata svuotata, avrebbe anticipato la scoperta del sistema di corruzione emerso nel ’92 con Mani pulite».
L’inizio fu a febbraio: lei arrivò ad aprile, affiancando Di Pietro.
«Era fenomenale negli interrogatori: per intuito, capacità di prevedere risposte, strumenti scenici. A un certo punto gli effetti si cumularono con le cause. C’era chi chiedeva di essere da lui interrogato per avere l’orgoglio di dire: ho confessato con Di Pietro».
I giornali vi mitizzarono.
«Nel ’92 Enzo Biagi intervistò Antonio sul Corriere della Sera: due pagine, con le sue immagini da bambino. Il giorno dopo mi chiamò Repubblica: mi propose di fare lo stesso con Giorgio Bocca. Dissi di no. Sarebbe diventata una gara».
A luglio di quell’anno lei, però, un’intervista la rilasciò. Il titolo era: «Parlate e sarà condono».
«La corruzione era sistemica: impossibile scoprire tutto. Allora proposi: chi parla, restituisce ciò di cui si è appropriato e si allontana per qualche anno dalla vita pubblica, esce dal processo».
Risultati?
«Nessuno. Sarebbero dovuti andare a casa quasi tutti i partiti, tranne l’Msi e Democrazia proletaria: gli unici fuori dai giochi».
Un’analisi simile a quella che fece Craxi in Aula nel luglio del ’92.
«Il punto è che Craxi diceva: visto che tutti abbiamo preso soldi, allora nessuno ne ha presi».
Che giudizio politico dà del leader Psi?
«Il problema di governare l’Italia è governare gli italiani. Pensi alle politiche di assistenzialismo della Dc: è stato per anni l’unico modo di conservare il potere».
Non mi ha risposto.
«Craxi ha fatto cose anche rilevanti: la revisione del Concordato o la gestione della crisi di Sigonella con gli americani».
C’è chi sostiene che dietro Mani pulite ci sia stato anche lo zampino degli Usa, intenzionati a far pagare a Craxi proprio la sua reazione di fermezza a Sigonella.
«Con noi non ha fatto niente nessuno. Al massimo, gli americani avranno tolto un tappo alla bocca di qualcuno. La dissoluzione del pentapartito non è dipesa da Mani pulite, ma dalla caduta del Muro di Berlino: i partiti erano così deboli che non sono stati in grado di reagire».
Qual è l’eredità di Mani pulite oggi?
«Nessuna. L’unico cambiamento riguarda il finanziamento illecito ai partiti: adesso è molto ridimensionato».
Gli ultimi due anni da magistrato li ha passati in Cassazione.
«Quasi tutti i togati della Corte Suprema non hanno una stanza: lavorano da casa. I confronti sono ridotti al minimo: quasi solo in camera di consiglio. Ricordo ancora che ogni mattina uno dei giudici più anziani entrava in sala, guardava la composizione del collegio giudicante e prevedeva come la causa finisse: “Oggi ho ragione”. E il giorno dopo: “Oggi ho torto”. A pensarci, provo ancora un forte disagio».
Così nel 2007 si dimise.
«Mi sentivo come un idraulico».
Un idraulico?
«Pensi a un signore che scopre che dal rubinetto di casa non esce acqua e decide di chiamare l’idraulico. Questi prova a trafficare ma niente: l’acqua continua a non arrivare. Fino a quando non si chiede se il problema non sia a monte e scopre che il guasto è condominiale. Ecco: è come se per 33 anni in magistratura mi fossi occupato solo del rubinetto della cucina».
Perché non ha fatto politica?
«Sarebbe stato come occuparsi di un altro rubinetto del condominio».
È anche per questo che continua a girare per le scuole?
«Sul fronte dei diritti siamo in pericolosa recessione, non solo in Italia. La prospettiva può essere nerissima nell’immediato. La speranza è nel futuro più remoto: solo da lì ci si può aspettare che succeda qualcosa di migliore».