La Stampa, 27 settembre 2025
Tutte le purghe dell’era Maga quando il potere viene usato per ridurre la parola al silenzio
Negli ultimi tempi su entrambe le sponde dell’Atlantico si parla molto di quanto è preziosa la libertà di espressione. Eppure, ogni iniziativa di Donald Trump indica chiaramente che per tutte le nostre democrazie la vera questione non è l’espressione, bensì il potere. Le minacce rivolte da Trump questa settimana contro il filantropo George Soros, il tentativo successivamente fallito di costringere Disney a estromettere il comico Jimmy Kimmel dal suo network tv, le azioni legali intentate contro il Wall Street Journal e il New York Times hanno a che vedere soltanto con l’esercizio del potere pubblico per intimidire gli avversari nella speranza che le voci dei critici diventino meno udibili e meno influenti. Questo stesso motivo, a cui si somma la vendetta, spiega l’accusa rivolta all’ex capo dell’Fbi, James Comey.
Né Trump né i suoi funzionari di alto grado fanno mistero di quello che stanno facendo. Open Society Foundations, l’organizzazione filantropica di George Soros, ha donato soldi al partito democratico e a organizzazioni progressiste a esso associate, pertanto è considerata un nemico politico. Nell’azione legale mossa da Trump contro il New York Times – che un giudice ha ordinato di riscrivere ex novo perché troppo lunga e troppo politica invece che legale – si afferma esplicitamente che l’illustre quotidiano, apprezzato e indipendente, è una sorta di braccio di propaganda del partito democratico. Comey, invece, è accusato di aver mentito al Congresso su un’indagine dell’Fbi che stava conducendo per capire se la campagna elettorale di Trump del 2016 avesse collaborato illegalmente con le autorità russe, indagine che Trump considera essere stata politicamente motivata e non risultante dall’applicazione della legge.
Sempre più spesso, Trump usa come strumenti politici propri le agenzie federali governative – compresi il dipartimento della Giustizia, l’Fbi e la Commissione federale del commercio (Ftc, che sovrintende ai media, tra gli altri settori). Se è normale ricorrere a queste agenzie per implementare le politiche della Casa Bianca, è assolutamente anormale usarle per cercare di vincere una competizione politica. In che modo tutto questo aiuta Trump sul piano politico? Dandogli maggiore influenza sull’opinione pubblica, incremento di particolare importanza nel momento in cui le sue politiche riguardanti i dazi, i vaccini, l’assistenza sanitaria, la politica estera e molte altre questioni lo stanno rendendo meno popolare.
Quando era il primo ministro italiano, Silvio Berlusconi aveva l’abitudine di rispondere a chi criticava il fatto che il suo governo stava soffocando la libertà di espressione, che l’Italia continuava a essere un Paese nel quale era garantita la pluralità delle opinioni, nel quale tutti erano liberi di dire quello che volevano. Ciò era verissimo, se non si teneva conto del ricorso alle cause per diffamazione intentate ai giornalisti per intimidirli. Tuttavia, anche la verità secondo cui in Italia la libertà di espressione era protetta non coglieva il problema di fondo: se una persona proprietaria della maggior parte dei canali televisivi poteva oltretutto condizionare quello che veniva detto sulle emittenti pubbliche, si veniva a creare un enorme squilibrio naturale tra i livelli di diffusione raggiunti da alcune idee rispetto ad altre.
Nello stesso modo, le azioni di Trump contro chi lo critica e contro i media che veicolano le loro critiche non faranno sparire la libertà di espressione negli Stati Uniti. La speranza di Trump, però, proprio come quella di Berlusconi, è determinare uno squilibrio enorme dei livelli di diffusione che andranno a vantaggio suo e del suo partito repubblicano. Infatti, un’altra delle iniziative della sua Amministrazione questa settimana ha ammesso implicitamente il ruolo fondamentale dei livelli di diffusione rispetto alla vera libertà di espressione.
L’iniziativa ha riguardato TikTok, il popolare servizio di social media di condivisione di video fondato e di proprietà di un’azienda cinese. Dopo mesi di rinvii e dibattiti, l’Amministrazione Trump adesso ha autorizzato TikTok a continuare a operare negli Stati Uniti, a patto che la proprietà cinese ByteDance venda la maggior parte delle sue azioni a un consorzio di investitori americani e che Oracle, il colosso americano del software che insieme ad altre aziende investirà in essa, abbia il potere di “addestrare” l’algoritmo che controlla il servizio che TikTok offre ai suoi utenti.
Questo, di fatto, significa che spetterà a Oracle il compito di fissare i livelli di diffusione dei diversi tipi di contenuti e dei differenti punti di vista su TikTok, una piattaforma diventata molto influente in molti Paesi, soprattutto tra i giovani, sia in America sia in Europa. Sul servizio americano di TikTok ci sarà ancora libertà di espressione, ma l’influenza delle opinioni e dei fatti offerti agli utenti sarà sotto il controllo di Oracle.
Questo potrebbe rivelarsi uno sviluppo infelice per la democrazia americana, o forse no. Quel che è chiaro, però, è che questo piano costituisce un ottimo precedente per le modalità con le quali gli enti di regolamentazione dell’Unione europea possono gestire i principali “luoghi” tramite i quali si esercita oggi la libertà di espressione: le piattaforme social media di Facebook, Google, X, Microsoft e proprio TikTok. Sarebbe antidemocratico per gli enti di regolamentazione dell’Ue dire alle piattaforme quale tipo di contenuti possono veicolare. E nondimeno sarebbe pienamente legittimo regolamentare il modo con il quale gli algoritmi delle piattaforme fissano i livelli di diffusione per i loro utenti.
Il problema principale che i social media pongono sia alla società sia alla democrazia è che i modelli di business delle piattaforme incentivano la circolazione di contenuti ostili, provocatori e astiosi rispetto a quelli più mainstream, più fattuali e più posati. La formula business dice che «rabbia uguale engagement uguale profitti». È l’algoritmo a dettare la modalità d’uso di questa formula per ciascuna piattaforma, e pertanto non deve stupire se le piattaforme online cercano di assicurarsi che i loro algoritmi continuino a essere tenuti segreti quanto la ricetta della Coca-Cola.
Il Digital Services Act dell’Ue è una pietra miliare che dà alla Commissione europea il potere di regolamentare questi algoritmi, il che potrebbe avvenire richiedendo che siano resi noti a ricercatori esterni oppure fissando vere e proprie regole su come possono operare. Trump ha minacciato l’Ue di altri dazi ritorsivi, qualora ricorresse al Digital Services Act per “discriminare” le aziende tecnologiche americane in questo modo. In verità, qualsiasi cosa l’Ue decida di fare varrà anche per le società di ogni nazionalità, e non potrà pertanto essere classificato come discriminatorio. In ogni caso, Trump ha appena fatto un bel regalo all’Ue: adesso, in realtà, l’Ue potrà dire che regolamentando gli algoritmi non fa altro che seguire l’esempio che lo stesso Trump ha dato con TikTok.
La libertà di espressione ha sempre posto difficoltà alle democrazie perché la libertà non può mai essere assoluta: se dicendo qualcosa mettessimo a rischio le vite altrui, la maggior parte delle democrazie vorrebbe regolamentare quella possibilità di espressione così pericolosa. Tuttavia, definire il rischio che le varie forme di espressione pongono è assai difficile. Quello che le democrazie possono cercare di fare, in ogni caso, è garantire un equilibrio ragionevole in termini di diffusione e di potenziale influenza di forme di espressione in concorrenza tra loro. Berlusconi e il suo emulo Trump ci hanno insegnato perché è importante.