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 2025  settembre 27 Sabato calendario

“Papà, uomo libero che odiava i panni del maestro”

Tarda mattina. Albergo di design immerso nella storia. Nell’atrio – e su ogni piano – la sagoma a grandezza naturale di David Lynch appesa al soffitto: «Ogni volta che si apre l’ascensore incrocio il suo sguardo, andrò presto a una sua retrospettiva a Stoccolma», dice Isabella Rossellini, sublime in pigiama-vestito a fiori e scarpe da ginnastica. Ha scelto un appartamento «così faccio colazione, altrimenti vai a caccia di un pompelmo e lo trovi circondato di pasticcini, le tentazioni di Sant’Antonio: una tortura». È a Roma per gli ottant’anni diRoma città aperta (l’anteprima al Quirino) uscito il 27 settembre 1945, e per il documentario in gara alla Festa del cinema Roberto Rossellini – Più di una vita di Ilaria De Laurentiis, Andrea Paolo Massara e Raffaele Brunetti (in sala con Fandango il 27, 28, 29 ottobre).
La serata al Quirino, un trionfo.
«Mi ha fatto piacere la curiosità verso il film e la voglia delle persone di tornare in sala».
La prima volta che l’ha visto?
«Il primo ricordo forte è a 16 anni, in un cinema vicino Piazza Esedra, durante una retrospettiva. Non c’era lo streaming, per vedere i film di papà dovevo aspettare queste occasioni. Da ragazzina avevo visto quelli di mamma sulla Rai il martedì sera: avevamo il permesso di restare alzati dopo le otto e trenta. Poiché papà odiava essere considerato icona, andavo a vedere i suoi film di nascosto. Quando scoprì che uscivo ogni pomeriggio e non tornavo per ore mi interrogò: “Papà, sto andando a vedere i tuoi film…”. Si commosse alle lacrime».
Anna Magnani e Aldo Fabrizi?
«I miei hanno divorziato che ero piccola. Ma ricordo che Fabrizi veniva spesso: faceva ridere papà, ci prendeva in giro, un po’ crudele: lo ricordavo enorme, rivedendolo nel film ho pensato “ah, ma è stato magro”. Con Anna… papà l’aveva lasciata per mamma, ferita grande.
Non è che ci vedessimo. Una volta mi portò da lei: appartamento pieno di gatti e cani, con cui giocavo mentre loro parlavano, mi piace pensare che le piacesse che questa bambina, benché della Bergman, amasse gli animali come lei».

Suo padre odiava esser chiamato “maestro del Neorealismo”.
«Diceva: “Non sono io il padre del Neorealismo, c’era un’urgenza di raccontare ciò che avevamo vissuto durante la guerra, non solo mia ma anche di De Sica e Visconti: un movimento”. A papà non interessava lo stile, dopo la guerra fece il film che poteva, per un imperativo morale: capire l’uomo. De Sica ha spaziato di più, papà ha avuto come costante la curiosità e la ricerca dell’umanità. Si vedeanche nelle biografie televisive: Socrate, il Messia, Pascal. Diceva: “L’uomo è un essere eretto, possiamo anche metterci in punta di piedi per vedere più lontano”».
Aveva problemi economici e rifiutava i film commerciali.
«I suoi film ebbero sempre meno successo. Ho appena girato un film con Joan Collins, The bitter end.
Quando l’ho incontrata – 93 anni – pensavo avesse conosciuto mamma, invece: “Conoscevo suo padre, dovevamo fare un film insieme, con Richard Burton”. Mi ha mostrato le foto: “Purtroppo litigò con i produttori, lo licenziarono”. Io: “Strano che avesse accettato” e lei: “Eh, con sette figli...».

Possiamo dire che “Il generale della Rovere” sia un ritorno al neorealismo.
«Sì. Bellissimo, ma lo visse come un tornare indietro: i due “padri” del Neorealismo, lui e De Sica, per accontentare i produttori. Erano amici, credo che Vittorio lo incoraggiasse, “dai, raccontiamo una storia che abbiamo vissuto”. Vinse il Leone d’oro, ma dentro pensava: “Se mi comprometto mi premiano, se non mi comprometto vengo punito”».
In “Nouvelle vague” di Linklater sul making off di “Fino all’ultimo respiro” c’è un Rossellini umano e un po’ buffo, che apprezza il buffet e chiede un passaggio a Godard.
«Papà non aveva soldi, è morto poverissimo, pieno di debiti, tanto che abbiamo rinunciato all’eredità. Mi diceva: “Dovete ringraziarmi che non vi ho fatto ricchi, siate contenti che siamo poveri”. Non l’ho mai capita fino in fondo. Intanto guadagno e metto i soldi in banca».
Godard lei l’ha conosciuto.
«Il regista Gero von Boehm mi portò a casa sua a Losanna. Mi diede un buffetto, benché avessi 50 anni. Disse che papà per lui era stato un tonton, uno zio».

Suo padre era ostinato.
«Tanti registi lo sono. Fellini a cena parlava sempre dei soldi chemancavano per fare il film. E dei cinque girati con mamma, nessuno ebbe successo. La stampa americana diceva che Rossellini ha rovinato la carriera della Bergman, mamma obiettava: “Sono io che ho rovinato la carriera di Roberto, pur di girare con me si è adattato a storie che forse non avrebbe raccontato”».
Il documentario lo racconta bene.
«Hanno preso testi di mio padre, di mamma e di Truffaut cucendoli con raccordi minimi. È davvero la voce di papà. Spesso libri e documentari sono deviati dal glamour».
Il film mostra il divorzio dei suoi.
«Mamma aveva voluto lavorare con papà, ma l’amore portò con sé gli scandali e pochi seppero guardare oltre. Mamma era sposata quando restò incinta di mio fratello Roberto: non poté tornare negli Usa, i suoi film furono censurati, non vide la primogenita per otto anni. Restò in Italia, fece altri figli. Papà non voleva che lavorasse a Hollywood, da maschio italianocontrollava un po’. Dopo cinque figli e cinque film andati male, problemi finanziari e paparazzi sotto casa, mamma non ce la fece più: si trasferì in Francia, tornò a lavorare, poi Anastasia, il secondo Oscar, Hollywood la riaccolse, e papà si sentì tradito. Un amico gli disse: “Vai altrove”. Fece un doc in India, si innamorò, ebbe due figli. Quando lui la chiamò dicendole dell’altra, lei sorrise: tornava a una vita normale. Il divorzio fu dovuto anche alla stampa aggressiva».

Amava i giovani: dal Centro sperimentale alle università Usa.
«Aprì un Dipartimento di cinema a Houston, parlava agli studenti come Socrate: “Conta più quello che volete dire del come, che dipende dalla tecnica e dai soldi”. Quando ho diretto i film sugli animali ho seguito il suo consiglio».
Alla Sala Troisi porta Chaplin.
«Con Il circo eIl monello i bimbi capiscono come i trisnonni ridevano cent’anni fa».