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 2025  settembre 26 Venerdì calendario

Intervista a Fabio Fazio

Fabio Fazio torna in tv sul il Nove, da domenica 5 ottobre con il fortunato Che tempo che fa. Qual è il primo programma che hai visto da bambino?
«Sono convinto, ma non è detto sia vero, di ricordarmi perfettamente l’allunaggio. Ma non all’ora in cui è avvenuto, in verità. Credo di averlo visto solo il giorno dopo, in una registrazione o in un telegiornale. Però ho nitido il ricordo di mia mamma che mi dice: “Siamo andati sulla Luna”, come se ci fossimo andati proprio noi della famiglia Fazio. Ricordo perfettamente il televisore con la marca Condor. Stava sull’immancabile carrellino, con due piani di vetro, uno dei quali serviva per appoggiare sotto quella cosa che doveva scaldare il televisore: il trasformatore. Bisognava andare ad accendere qualche minuto prima di voler vedere un programma. Pensa che gesto di volontà: tu, volendo vedere una cosa, dovevi addirittura prepararti e programmarlo».
Guardavi la Tv dei Ragazzi?
«Ricordo nitidamente la sigla di Immagini dal mondo. Era il primo programma per la Tv dei Ragazzi, quello con cui si accendevano le trasmissioni nel pomeriggio. Aveva una sigla che oggi definiremmo multirazziale, nel senso che c’erano ragazzi di diverse etnie che andavano a pattinare sotto la Tour Eiffel. Nacque lì il mio innamoramento per Parigi, luogo che allora mi sembrava magico e irraggiungibile, come tutto quello che appariva in televisione».
La scoperta della Luna e la multirazzialità, due sogni di allora oggi messi in discussione. C’è persino chi dice che lo sbarco di Armstrong sia stato girato a terra. La frase di tua madre: siamo andati sulla Luna, era bellissima. Voleva dire che era una conquista comune. Oggi non siamo più capaci di sognare?
«Siamo tornati dalla Luna, siamo atterrati malamente. Il nostro tempo è stato segnato da un clamoroso progresso scientifico e tecnologico, ma, diversamente da quanto noi pensavamo, non c’è stato progresso umano, non abbiamo accresciuto la nostra capacità di crescita interiore, né siamo stati capaci di gestire l’innovazione tecnologica, finalizzandola al miglioramento della nostra relazione con gli altri e con il mondo. Non sappiamo più sognare, perché il sogno non porta utili. Si è sostituito il sogno, il senso di giustizia e di solidarietà, con la convenienza. Aveva ragione Pasolini sui rischi di omologazione e sulla divaricazione tra sviluppo e progresso. Le persone sono state trasformate, volenti, ma anche nolenti, in un’unica classe sociale, quella dei consumatori».
Consumatori e non cittadini.
«Quando si è consumatori quasi sempre si finisce con lo scegliere ciò che è conveniente e non ciò che è giusto o ciò che è bello. C’è un libro che parla di montagna e si intitola La conquista dell’inutile. L’inutile è la cosa più utile che ci sia al mondo. È tutto quello che rende la nostra vita diversa dall’essere una pietra o un animale. Ho letto qualche tempo fa un’intervista di Galimberti che si chiedeva: se si togliesse al Medioevo la parola Dio non rimarrebbe assolutamente niente. Né l’arte, né la letteratura, né la vita quotidiana delle persone. Se tu oggi togli alla società la parola Dio, cosa succede? Nulla. Ma se tu togli oggi la parola denaro crolla tutto».
Ieri era davvero meglio di oggi?
«Quando indulgo nel rimpianto mi infastidisco di me stesso, quindi mi sono imposto di non dire mai: “Eh sì, ma era meglio...”. È così e basta. Dopodiché, nel dire è così e basta, bisogna essere però sinceri e confessarci che alcune cose sono peggiorate per la nostra qualità della vita. Cose anche apparentemente piccole: per me prima era più comodo andare a fare la spesa al negozio sotto casa e adesso il fatto che abbia chiuso e ci sia una signora che vende unghie mi fa tristezza. E poi: quante unghie abbiamo? Cosa è successo, abbiamo più dita? Cosa è accaduto? Come è possibile che tutti i quartieri sostituiscano il macellaio con gli ungulati?».
La bellezza è diventata superflua, nel mondo dei consumatori.
«Adesso hai la sensazione di essere solamente un costo. Capita spesso che qualunque cosa uno dica, in qualunque ambito e anche nel mio lavoro, la prima domanda che si sente rivolgere è “quanto costa?” Si arriva alla determinazione che, forse, se l’unico criterio è il costo, è meglio non far niente. Per paradosso, se uno non nasce è meglio, si risparmia».
Un millennial direbbe: voi dite che noi facciamo coincidere reale e virtuale, ma non era così anche con la televisione?
«La televisione, all’inizio, nelle case era dissimulata, si metteva il centrino, la si camuffava con la gondola. Era un oggetto pericoloso che dovevamo ingentilire malamente perché la sua funzione non era ben chiara. In fondo, uomini come La Malfa e Berlinguer si opposero, eravamo alla fine degli anni Settanta, all’introduzione della tv a colori. La si guardava con grande diffidenza: si sapeva, forse si temeva, che non era quella la realtà. E poi era poca: un canale, poi due, e cominciava nel pomeriggio. La televisione, quella, non provocava dipendenza».
Tu hai conosciuto quella tv perché sei nello schermo da tanto tempo.
«Ho cominciato a fare questo mestiere ormai quasi 43 anni fa, nel 1983. Prima in radio locali, poi, per un quarto di secolo, in un programma storico della radio che si chiamava Blackout con Enrico Vaime, Guido Sacerdote e Luciano Salce. Loro avevano tradotto il teatro di rivista in televisione. L’avevano inventata, costruendone l’alfabeto, qualcosa di più della grammatica. Erano maestri, parola che sta sparendo, che si divertivano a insegnare il mestiere a un ragazzino di 19 anni. È come se avessi vissuto per tanto tempo la Tv degli Anni 60. Non solo perché l’avevo vista, ma perché loro me la spiegavano. È come se fossi stato dietro le quinte di Canzonissima, come se fossi stato tra le telecamere di Studio Uno».
La televisione è un acquario?
«L’ho messo al centro dello studio come omaggio a Maurizio Costanzo e al primo talk della storia televisiva. Era un simbolo ironico, quasi un pessimistico vaticinio di ciò che poteva diventare la televisione. Adesso io credo che non sia nemmeno più un acquario. Penso che non sia niente. In realtà, per le nuove generazioni temo sia ormai solo un supporto per fare altro. Non conosco nessuno con meno di 50 anni che abbia detto: stasera sto a casa a vedere questo o quel programma. La televisione è una cornucopia che libera ogni giorno, sulle piattaforme e in chiaro, migliaia di ore. Quando hai finito di girare per i canali sei a letto e non hai visto niente. Il problema è che non si avverte l’esigenza di usare la televisione come un mezzo di racconto. La grande distinzione che c’è fra allora e oggi è che quando facevi una cosa doveva avere un senso. Oggi quel senso lì è completamente svanito. Non c’è un senso, perché un senso non è nemmeno richiesto».
La stagione televisiva è ricominciata ma sembra la fotocopia delle ultime. Tu hai inventato molti programmi. È così difficile creare e sperimentare?
«La televisione è ormai un flusso di format. Io andavo nell’ufficio di Voglino, geniale capostruttura di quella Rai, e dicevo: “Sai Bruno, ho avuto un’idea…”. Frase che, prima di dirla, uno dovrebbe pensarci milioni di volte: però si faceva così. Pensa a quante idee originali ha sfornato la Rai in quegli anni, pensa alla terza rete di Guglielmi… Tu raccontavi e qualcuno ascoltava e interloquiva. Una cosa assurda, oggi. E da quel momento, grazie a quel confronto, si iniziava a costruire un programma. Io ho sempre fatto così, con gruppi di lavoro diversi. Anche Che tempo che fa è così. La mia, la nostra, è una Tv artigianale. Ci saranno cose belle e brutte, ma sono il frutto della creatività e del lavoro di più persone che, partendo da un’idea, iniziano a costruire un programma, mettono insieme gli autori, la regia, la scenografia. Un cantiere. È una cosa che non esiste più, perché il nuovo è vissuto come un esercizio di presunzione».
Cos’è la Rai per te?
«Quarant’anni di vita, il mio Dna televisivo. È stata casa mia da quando ero ragazzo, il luogo in cui sono cresciuto, diventato grande, un uomo, quasi un vecchio. È stata la mia vita, ho trascorso quarant’anni lì dentro e non ho fatto altro. Credo di conoscere il Dna della Rai come pochi».
La prima volta che hai messo piede in Rai?
«A Roma per il provino. Poi mi chiamarono per Pronto Raffaella e andai in Via Teulada. Vedevo materializzarsi tutto quell’incanto che la televisione aveva rappresentato nella mia infanzia. Mio papà mi aveva accompagnato e ricordo sempre che incontrai la Carrà in ascensore. Lei mi conosceva perché mi aveva visto nel provino e fece un gesto di saluto. Io ho ricambiato abbassando gli occhi, perché non osavo. Però mi ricordo che dissi a mio padre: “Papà, ma è a colori!”. L’avevo sempre vista in bianco e nero. Ma in quel momento, in quel luogo magico, c’erano i miei sogni di ragazzino di provincia, il mio rapporto con la Tv: l’allunaggio, la Torre Eiffel, vista nella sigla di Immagini dal mondo, Febo Conti, Walter Chiari, le telefonate che si facevano mia mamma e mia nonna per commentare l’abito di Mina visto la sera prima. E poi Mike Bongiorno che, per me, rappresentava la modernità. Quando la voce fuori campo diceva: “Dagli studi della Fiera di Milano…” a me si apriva un mondo. Mike era il futuro che arrivava in provincia».
Quanto ti ha fatto soffrire lo sfratto dalla casa Rai?
«Quello che mi ha deluso è stata la disponibilità ad acconsentire alla prepotenza. Cioè che nessuna resistenza sia stata opposta, che nessuno abbia detto: “Ma no, questo fa guadagnare ascolti e soldi con la pubblicità…”. No, un’assoluta acquiescenza nei confronti di un desiderio meschino. Togliere qualcuno di torno. Ma so che nessuno è indispensabile. E so che è meglio essere dove ti vogliono che dove non ti vogliono. Ho avuto grande fortuna a finire in una televisione dove invece mi volevano e poi le cose sono andate bene. Ho imparato anche la leggerezza dell’essere liberi, di non avere l’ansia tutti i giorni di sapere cosa dice la commissione di vigilanza, cosa dice quello che chiama quell’altro… Poter di nuovo pensare al programma come programma e non alle conseguenze che producono le parole pronunciate».
Il tuo pubblico ti ha seguito su tutte le reti Rai e ora su il Nove. Come si è costruita questa comunità?
«Potrei dire che sono lì da 43 anni, quindi mi considerano parte dell’arredamento di casa. La verità è che quella scuola, in Rai, mi ha insegnato a rispettare il pubblico e a stimarlo migliore di me. E la stima è forse il sentimento che più mi è stato restituito. Enrico Vaime sosteneva che per dire certe cose ci vuole la patente. Bisogna sempre stare attenti a dire cose che corrispondano alla propria faccia. Anche questo è rispetto».
Nei tuoi programmi, da sempre, fai due cose che oggi sembrano blasfeme. Ascolti gli altri e cerchi di far sorridere. Cominciamo con l’ascolto.
«Ho avuto una fortuna. Una sera ero a cena con Dori Ghezzi e Fernanda Pivano. A Fernanda chiesi di parlarmi di Hemingway. E di tutte le cose che poteva raccontarmi ne scelse una: “Una volta lui ha corretto un tema di sua nipotina. Ha fatto una croce solo su una parola, la prima, che era io. E le ha detto: io non si deve mai dire e mai scrivere”. Da quel giorno sto attentissimo a non usare l’io. Quando si fa un talk show bisogna mettere da parte sé stessi. Facciamo solo televisione, non è che abbiamo scoperto la penicillina. Lo so che è l’epoca delle autobiografie. Ho amato molto il genere. Ma adesso mi fa sorridere che ci siano quelle, che so, di cantanti che hanno 22 anni, o degli influencer. Non hanno la patente, come direbbe Enrico Vaime, e si celebrano».
Con il tavolo o con Luciana Littizzetto, cerchi di far ridere il pubblico, cosa oggi difficilissima.
«Se leggi i titoli dei giornali o guardi un telegiornale, c’è poco da ridere. Quando vediamo il cinismo e la disinvoltura con la quale si ammazza la gente, con la quale si parla di guerra, c’è poco da stare allegri. Questo a livello generale. A livello individuale la spiegazione è che il consumatore non fa che desiderare, quindi non è mai soddisfatto, ha costantemente rabbia per quello che ancora non ha. È difficile ridere perché in questo tempo prevale l’aggressività. Ma Luciana, che è un genio, ci riesce».
C’è un ospite che non sei riuscito ad avere?
«Ho provato tante volte con Armani. E non sai quanto ho insistito con lui e i suoi. Perché non ha voluto venire? Non lo so. Per timidezza o perché forse non gli piaceva rivedersi. Mi dispiace molto. Sarebbe stato un bel racconto di una bella vita».
Com’era Moana Pozzi?
«Era bella. Molto esuberante, molto bella, molto solare. Era una donna intelligente, davvero intelligente. Avevo la sensazione che l’animo non corrispondesse all’aspetto».
Rifaresti Sanremo?
«Probabilmente sì. Se penso che il primo l’ho presentato a 35 anni, una cosa assurda. Oggi lo farei con più leggerezza, con più serenità. Ma è una domanda di fantascienza, quindi rispondo per questo. Per fare Sanremo bisogna dotarsi di due cose: un’idea, perché altrimenti diventa uno show come tanti. E, poi, devi essere saldo in te stesso. Altrimenti Sanremo fa impazzire. È una cosa troppo grande, e ti può venire la presuntuosa illusione che sia andata bene per merito tuo. Se è andato male sei stato tu, ma se è andato bene è in primo luogo per la storia, la tradizione. Se non sei saldo, Sanremo può farti sbroccare».
Hai paura del futuro? Gaza, Kiev, la violenza politica…
«Onestamente sì, per i miei figli. Mi chiedo però se il loro distacco dalla realtà, in qualche modo non li salverà. Perché consentirà loro di non credere a tutto quello che succede. Ma non so invece se cadranno in trappola, perché distratti non si renderanno conto che la realtà gli arriverà addosso come lo tsunami quando non te lo aspetti. Prima che arrivi lo tsunami è tutto calmo e tranquillo e tu pensi che sia, che sarà così per sempre. Poi improvvisamente arriva l’onda e ti travolge. Ecco, io non so se loro saranno travolti mentre guardano il display o se invece quel display, quindi quella loro realtà, vincerà su quella di questi vecchi che governano il mondo e vogliono fare la guerra».
È vero che Mick Jagger ti deve dei soldi?
«Sì, caspita. Tanti anni fa, quando facevo Quelli che il calcio, volevo organizzare dei collegamenti strani e mi mandarono a Londra a parlare con un misterioso broker che si diceva conoscesse un sacco di gente. Morale: parto e vado a Richmond, il quartiere bene di Londra. Il tassista mi dice: “Ma lo sa che qui abita Mick Jagger?”. Arrivo a casa di questo signore e gli chiedo se è vero. Mi risponde: “Sì, sì, è un mio amico, più tardi arriva”. Da quel momento ho pensato fosse un millantatore. A un certo punto, mentre siamo in giardino, entra una Mercedes verde station wagon. Cazzarola, era Mick Jagger. A quel punto non capivo più niente, avevo 80 gradi di temperatura corporea. Dopo un po’ l’ospite mi chiede: “Come fai a tornare a Londra?” Dico: “Prendo la metropolitana, visto che c’è”. Mick Jagger mi guarda: “Ti accompagno io in macchina”. Ho viaggiato con lui sino alla metropolitana di Richmond. Ero stupitissimo, si fermava a tutte le strisce, faceva passare tutte le vecchiette. Mi aspettavo che Mick Jagger guidasse rock, invece no, sembrava Gianni Morandi. Quando scendiamo dalla macchina c’è il parchimetro e lui dice: “Porca miseria, non ho coin”. Premesso che mi sembrava sbagliato che Mick Jagger dovesse pagare il parchimetro, io istintivamente dico: “Te li do io”. E gli do questi soldi. Io però non gli ho mai detto che glieli regalavo. Nella mia testa gliel’ho prestati, sono ligure. Insomma non me li ha mai restituiti. Devo incontrarlo prima o poi, questa cosa va chiarita».