Corriere della Sera, 27 settembre 2025
«Su piazzale Cadorna la ferirono le critiche a livello personale. Dopo Carlo Ripa di Meana non volle più altre storie d’amore»
Nina Artioli, il primo ricordo che ha di sua nonna?
«Il 30 novembre 1986, al pranzo da lei organizzato al ristorante Voltaire di Parigi il giorno prima dell’inaugurazione del Musée d’Orsay. L’evento più importante della sua carriera professionale coincideva con il compleanno di mio papà Odino. Così invitò tutti per festeggiare assieme, parenti, amici, il gruppo di lavoro. In sala si rideva e si scherzava».
Nella monografia «La Gae», curata dallo storico Giovanni Agosti assieme a lei e a Nina Bassoli, viene pubblicato persino il foglietto con lo schema dei posti a tavola.
«Fu sottoposto a modifiche fino all’ultimo. Salvo un fatto che resta indiscusso: lei doveva essere seduta di fronte a Michel Laclotte, lo storico dell’arte che poi divenne direttore del Louvre. Di quel periodo conservo una foto di me a 6 anni, per mano alla Gae nel cantiere del d’Orsay».
Lei con il cappottino rosso, entrambe con indosso il casco da cantiere.
«Un episodio che racconta quanto in lei convivessero naturalmente l’architetto celebre e la nonna. Ritrovammo quella foto che già ero iscritta ad architettura. In famiglia la definirono profetica»
Perché lei, diversamente da sua mamma, la costumista Giovanna Buzzi, unica figlia di Gaetana Emilia Anna Maria Aulenti detta Gae, scelse la professione di famiglia.
«Sì, e la Gae era molto fiera. Anche se poi, durante i miei studi, si fece molto gli affari suoi: la sua regola era non aiutare e mantenere una giusta distanza. Io stessa non le chiedevo nulla. Ci siamo ritrovate quando ho cominciato a lavorare nel suo studio».
Il suo più grande insegnamento?
«La curiosità intellettuale, che la spinse ad occuparsi di tutto, dalle case all’urbanistica, dal design al teatro. Nel suo non essere specialista, era molto poco convenzionale».
Disse di sé: «Sono severa, è la mia natura. La severità è una chiave indispensabile per affrontare problemi immensi». È sempre stata così?
«La sua immagine pubblica era quella di donna tutta d’un pezzo, seria, spigolosa. Ma in casa la ricordo affettuosa, sempre presente, anche se in effetti è stata più morbida con noi nipoti che con la mamma. Non abbiamo mai saltato un agosto o una Pasqua in famiglia nella sua casa di campagna in Umbria».
Un luogo molto amato.
«Fu un regalo del suo grande amico Luca Ronconi. Negli anni Settanta la Gae gli ristrutturò il casale Bracolino, tra Perugia e Gubbio, così lui per ringraziarla le donò la cascina a fianco, casa La Rosa. Lì ogni estate invitava i suoi amici più cari. Ronconi era sempre a cena da noi, e poi l’architetto Oriol Bohigas, lo scultore Antoni Llena, Vittorio Gregotti con la moglie Marina, Guido Vergani, Oliva di Collobiano. Io ero sempre lì a gironzolare intorno. Come nei giorni di Natale a Milano».
Celebri le sue feste natalizie nella grande casa-studio di Brera, oggi sede dell’Archivio Gae Aulenti, da lei fondato e diretto.
«La sua casa è un luogo speciale: la Gae aveva unito tramite una piccola porta l’appartamento di Brera e lo studio che affaccia su piazza San Marco. Qui il 24 sera festeggiavamo con i miei genitori, la mamma della Gae e sua sorella Olga. Il giorno dopo a pranzo ospitava la famiglia di mio papà che arrivava da Modena con i tortellini».
E poi la sera gli amici.
«Quella della festa di Natale era una tradizione nata per caso, un anno che volle invitare un amico separato. Presto si trasformò in un appuntamento fisso per gli amici soli. Poi come al solito si fece prendere la mano: negli anni quelle cene diventarono feste con 50 o 60 persone sparpagliate tra casa e studio: Umberto Eco, Eva Cantarella, Guido Martinotti, Inge Feltrinelli, Lina Sotis che abitava al piano di sopra... Il menu prevedeva sempre i blinis al salmone. Un anno decise di prepararli lei stessa: erano così tanti che, si racconta, dovette impastarli nella vasca da bagno».
Davvero cucinava?
«No, ma era curiosa di tutto, anche della cucina. Per lei invitare gli amici era fondamentale. Tanto è vero che nei suoi progetti i tavoli da pranzo erano sempre enormi, per far sedere almeno 12 persone».
Come quello progettato nel 1969 per la Casa di un collezionista, l’appartamento milanese di Gianni Agnelli.
L’omaggio di Milano
«Il luogo che porta il suo nome? Sarebbe choccata: assai lontano dalla sua architettura»
«Era un tavolo da lavoro usato dagli ingegneri nello stabilimento Fiat di Torino. Gli misero delle gambe molto pop e fu posizionato, con una certa ironia, davanti all’opera In the car di Roy Lichtenstein».
Soprannominata la signora dell’architettura, odiava la definizione archistar.
«Perché non voleva dire niente, era sinonimo di modaiolo che non era la sua cifra».
Dell’altro grande architetto italiano, Renzo Piano, scrisse: «Opera per l’architettura in maniera diversa dalla mia. Lui è più appassionato della tecnologia, e la mostra. A me invece piace nasconderla». Erano in contrasto?
«Erano gli altri a metterli sempre a confronto. Ma non si erano antipatici. Mia nonna stimava Piano. Solo avevano approcci differenti».
Il museo d’Orsay, le Scuderie del Quirinale, l’Istituto Italiano di Cultura a Tokyo, Palazzo Grassi a Venezia, ma anche i negozi Olivetti, il tavolo con le ruote, le scenografie per gli spettacoli di Ronconi... Oltre alla sua vita, nel libro si raccontano tutti gli 800 progetti di Aulenti. Quali i suoi preferiti?
«Li metteva tutti sullo stesso piano. L’unica volta che le ho sentito esprimere una preferenza fu a proposito di due lampade, la Pipistrello e la Ruspa: non capiva come mai tutti parlassero della prima e nessuno della seconda».
Amori.
«Dopo mio nonno, Franco Buzzi, conosciuto sui banchi del Politecnico, dal quale si separò, il suo secondo grande amore fu Carlo Ripa di Meana. Quando la storia finì, disse che preferiva trovare soddisfazione in altro. Probabilmente aveva di meglio da fare».
Vizi.
«Il fumo. Fumava già dalle 8 di mattina. Almeno due pacchetti di sigarette al giorno. E poi il whisky: tutti i giorni, quasi fino alla fine, pasteggiava ad acqua e whisky».
Vezzi.
«Indossava spesso qualcosa di colore rosso: il fiocchetto della Legione d’onore, le calze o i suoi celebri occhiali. Forse anche per stemperare il suo stile così austero».
Un ricordo degli ultimi giorni?
«L’ultimo evento pubblico al quale partecipò fu il 16 ottobre 2012, quindici giorni prima di morire, in Triennale, dove ricevette la Medaglia d’Oro alla carriera. Il tumore era molto avanzato ma continuò a lavorare e tenne duro fino alla cerimonia. Era orgogliosa di quel premio. Nonostante fosse nata in Friuli, cresciuta a Biella e avesse lavorato in tutto il mondo, considerava Milano la sua città. Malgrado il rapporto talvolta complicato».
Cioè?
«Ci rimase malissimo per piazzale Cadorna. Diceva che un progetto per funzionare non deve piacere a tutti. Perciò era importante che quel restyling suscitasse una reazione. Non si aspettava, però, le critiche personali. In giro si diceva: guarda Gae Aulenti che cosa ha combinato. Fu una ferita dolorosa. Perciò, dopo la consegna della medaglia, che fu il riconoscimento della sua città al suo lavoro, di fatto mollò. E il 31 ottobre si spense, serenamente».
Cosa direbbe oggi Gae Aulenti dell’inchiesta sull’urbanistica a Milano?
«Già i nuovi progetti di City Life che riuscì a vedere non le piacevano. Le sembravano calati dall’alto. Per lei ogni opera funzionava se immersa nel suo contesto. Quindi penso che questi anni di ulteriore trasformazione non l’avrebbero lasciata indifferente. È anche vero, però, che poi tutto evolve. Quando ci comunicarono, dopo la sua morte, che le avrebbero intitolato l’attuale piazza Gae Aulenti, in famiglia dicemmo: sarebbe rimasta scioccata».
Addirittura?
«Quello spazio così fuori da ogni contesto non era il suo tipo di architettura. Oggi, però, è diventato un nuovo centro vitale di Milano e questo le sarebbe piaciuto molto, al di là della sua forma. Mia mamma scherzando dice sempre: alla fine hanno trasformato mia mamma in una piazza...».