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 2025  settembre 28 Domenica calendario

Andare in pensione nel 2100

Ancora non ha imparato a parlare e camminare ma ha già un nome: la Generazione Beta ha debuttato quest’anno. A inaugurarla, bambini e bambine nati nel 2025 (e quelli che nasceranno fino al 2039), «nativi dell’IA». Sono e saranno i figli dei Millennial e della Gen Z; nel 2035 rappresenteranno il 16% della popolazione globale (secondo l’Istituto McCrindle, che ha coniato l’espressione Gen Beta e quella Gen Alpha che la precede), e alcuni vivranno fino al XXII secolo. Cresceranno in un’epoca in cui mondo digitale e fisico saranno integrati e affronteranno le sfide (al netto di cataclismi bellici e sanitari) che il demografo Alessandro Rosina definisce delle «4 I»: invecchiamento, immigrazione, impatto ambientale (uno studio di Cambridge pubblicato il 24 settembre prevede un crollo del Pil pro capite globale del 24%, entro il 2100, a causa degli choc climatici), innovazione.
I nati nel 2025 compiranno 75 anni nel 2100. «La Lettura» ha chiesto uno sforzo di immaginazione ad esperti – il demografo Gustavo De Santis, lo storico economico Giacomo Gabbuti, il climatologo e fisico dell’atmosfera Vincenzo Levizzani e la sociologa Laura Sartori —, per ipotizzare quale pianeta e quale società lasceremo ai nostri figli che, idealmente, andranno in pensione nel 2100. Ne è nata una conversazione «distopica» che parte dal presente e si affaccia sul prossimo secolo.
Andremo in pensione nel 2100?
GUSTAVO DE SANTIS – Sì, ma in modo diverso. Tutto cambia nel mondo, e fra i cambiamenti c’è l’allungamento della durata della vita, che è, tra l’altro, una delle misure per valutare il grado di sviluppo di un Paese. Però una delle conseguenze è che dobbiamo accettare il fatto che anche la distribuzione delle fasi della vita – sei giovane e studi, sei adulto e lavori, sei anziano e vai in pensione —, non potrà restare ancorata alle età a cui siamo abituati. Poi c’è la questione della bassa fecondità, che si traduce in un limitato afflusso di giovani. Nel 2100 forse la situazione non sarà così grave; il momento più brutto l’Italia lo attraverserà fra una decina di anni, quando andranno in pensione i nati nel boom degli anni Sessanta. Ciò produrrà il maggiore impatto sul sistema pensionistico, che già ora non gode di ottima salute. Nel 2100, invece, si può pensare che la piramide per età, pur se anziana, non sarà distorta com’è ora. Nei Sessanta sono nati più di un milione di bambini all’anno, adesso non siamo neanche a quattrocentomila, con un calo di oltre 60%, che per giunta è stato molto rapido in termini demografici. Perciò: avremo nel 2100 le stesse regole previdenziali che abbiamo oggi? No. Ma da qui a dire che il sistema crollerà c’è un po’ di strada. Il sistema sarà costretto ad adattarsi, e la cosa più semplice è allungare il periodo lavorativo e anche ripensare a quanto generosi siamo verso gli anziani. Nella popolazione anziana ci sono grandi disparità, è vero; ma ora è più facile trovare poveri, per esempio, tra gli immigrati o le famiglie numerose, che non tra gli anziani, i quali grazie al sistema previdenziale sono stati protetti più di altre categorie dalle avversità economiche degli ultimi 20 o 30 anni.
Si allungherà la vita lavorativa degli individui?
GUSTAVO DE SANTIS – Di sicuro, e questo è vero già oggi nella legge italiana. Però quando, ogni due anni, dovrebbe scattare il lieve rinvio dell’età pensionabile legato all’aumento della durata media della vita, governo e sindacati tendono a nicchiare e rimandare. Ma è l’intero Paese a non avere ancora accettato questo meccanismo. Se muori a ottant’anni puoi andare in pensione a 60 o a 65, ma se muori a 90, o a 100? Si mantiene l’età pensionabile dov’era ieri? Bisogna accettare l’idea: vivi più a lungo, devi anche lavorare più a lungo. Gli anni di vita in più sono un costo aggiuntivo. La domanda è: chi lo paga? O aumenti i contributi, ma in Italia abbiamo già i contributi più alti del mondo, o abbassi il valore medio della pensione, o allunghi il periodo lavorativo. O una combinazione di queste tre cose. Allungare il periodo lavorativo è probabilmente la scelta più sensata: direi che è nella natura delle cose.
Il sistema può reggere in uno scenario dove pochi giovani lavoreranno rispetto a tanti anziani?
GUSTAVO DE SANTIS – In teoria il sistema può sempre reggere se si è abbastanza elastici nel ritardare l’età pensionabile. Aggiungo tre temi: uno, la fecondità in Italia oggi è bassissima, ma alcuni pensano che risalirà un po’. Due, siamo ostili alle immigrazioni, che però sono un modo per rimediare alle poche nascite e sono per noi un gran beneficio. Tre, un sistema previdenziale a ripartizione, come il nostro, scarica sulle generazioni future i costi di molte scelte di oggi. Ogni volta che diciamo: «Ti mando in pensione prima»; oppure: «Ti pago poco oggi, ma ti darò una pensione generosa», quello che stiamo dicendo è: «Non voglio pagare il valore del tuo servizio ora, preferisco farlo pagare a qualcun altro domani». È una truffa ai danni di chi verrà.
Qual è lo stato di disuguaglianze e ricchezza oggi nel nostro Paese? E quali scenari si possono immaginare per il 2100?
GIACOMO GABBUTI – Il peso che in questo Paese ha assunto la ricchezza, e la sua componente ereditaria, ha pochi precedenti, come mostrano i capitoli del saggio che ho curato, Non è giusta. L’Italia delle disuguaglianze (Laterza). Ne Il capitale nel XXI secolo (Bompiani, 2014) Thomas Piketty ha portato il tema delle disuguaglianze nel dibattito pubblico mostrando l’andamento a «u» del peso della ricchezza privata, quindi i nostri conti in banca, i patrimoni eccetera, sul Pil, cioè sui nostri redditi. Oggi in Italia siamo arrivati a un rapporto di otto: per comprarci tutta la ricchezza privata ci mettiamo otto anni di Pil; ai tempi del Miracolo economico ce ne volevano due-tre. Ora si diventa ricchi non lavorando, ma ereditando o sposandosi bene: ogni anno il 15% del Pil viene trasmesso in eredità. Non a caso, la mobilità sociale si è ridotta dopo il Miracolo, ed è tra le più basse dei Paesi avanzati. Questo avviene in un contesto in cui, nonostante i salari siano stagnanti, al loro interno permangono e si allargano disuguaglianze di genere e di classe. L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) dice che i nostri salari reali sono addirittura decresciuti negli ultimi trent’anni; nel frattempo, è aumentato il divario tra lo stipendio di manager e impiegati. Aumenta la partecipazione femminile al lavoro, ma dentro c’è sempre più part-time involontario, più segregazione su settori di lavoro povero e sempre più peso diseguale del lavoro di cura, che potrà solo esplodere in un Paese più anziano. Se aumenta la quota di reddito in mano ai più ricchi, in termini globali chi lavora, anche la nostra classe media, è sprofondato: mentre negli anni Novanta lavorare in Italia garantiva di per sé l’appartenenza al 10% di lavoratori più «fortunati» al mondo, oggi è vero solo per i più ricchi, e chi ha rendite o profitti, mentre la massa sprofonda verso la media globale. Un quadro destinato a peggiorare, con il baricentro economico del mondo che si sposta verso l’Asia. A questo va aggiunta l’incertezza che deriva dalla messa in dubbio, con guerre e dazi, di ogni forma di ordine globale, che rischia di abbattersi non solo sull’export, ma anche sui lavori, poveri, nel turismo. È facile prevedere che, visto che le disuguaglianze stanno aumentando almeno dagli anni Novanta, andrà sempre peggio. Ma la storia delle disuguaglianze ci dice che non è un dato di «natura»: ci sono fattori tecnologici, il contesto internazionale, ma contano anche le politiche. È quando si è deciso di combatterle, tassando progressivamente, tutelando il lavoro, che le disuguaglianze sono scese.
In «Storia del mondo in 10 tempeste» (il Saggiatore) Vincenzo Levizzani sostiene che il numero di eventi estremi aumenta in modo vertiginoso. Sarà sempre peggio?
VINCENZO LEVIZZANI —Sì, se continuiamo a prestare scarsa attenzione all’emissione in atmosfera di gas climalteranti come la CO2, o il metano, per esempio, che viene dagli allevamenti e anche dallo scioglimento del permafrost artico. La circolazione generale dell’atmosfera è già cambiata, non dobbiamo aspettare cento anni per verificarlo. Esempio: come mai in estate siamo sottoposti a temperature sempre più elevate, 40-45 gradi, e anche di più? La circolazione generale è cambiata, la corrente a getto si è spostata verso latitudini più elevate, e di conseguenza l’anticiclone africano che normalmente sta sul Sahara, ha cominciato a interessare il Mediterraneo: la Sicilia, il sud dell’Italia, fino al Centro Europa. Questo è il segnale di una circolazione generale cambiata in pochi decenni. È vero che nelle varie ere il clima è sempre stato soggetto a cambiamenti, però questi avvenivano nel corso di secoli; ora nel giro di dieci, vent’anni. Quindi, cosa vuol dire aumento di eventi estremi nel futuro? Le precipitazioni che cadono sulla Terra sono sempre le stesse su base annua, ma l’acqua in caduta non viene più spalmata su tutto il globo, ma scende in eventi precipitanti estremi e molto localizzati, mentre in altri luoghi non scende una goccia d’acqua.
GIACOMO GABBUTI – In Non è giusta, Matteo Coronese ed Elisa Palagi scrivono di cambiamento climatico e diseguaglianze. Anche grazie alle ricerche di Lucas Chancel sappiamo che la responsabilità del cambiamento climatico è diseguale. Non solo i Paesi ricchi, ma l’1% più ricco della popolazione è responsabile di emissioni maggiori, vedi l’esempio dei jet privati. Ma è anche l’impatto a essere diseguale. In Italia il quarto più povero della popolazione, di fronte alla variabilità delle precipitazioni, perde più del 6% di reddito, cioè vede una riduzione della crescita dei propri redditi, mentre l’1% più ricco non subisce alcun impatto in media. Il cambiamento climatico contribuirà a rendere più regressiva e diseguale una situazione già preoccupante.
Con queste premesse, come ci immaginiamo la società in cui vivranno i nostri figli?
LAURA SARTORI – Prima di parlare di futuro, faccio un’introduzione. Oggi si parla di «presente esteso». Il digitale ha iniziato, a partire dalla mail, a rendere meno netto il confine tra lavoro da casa e in ufficio, tra online e offline. Quindi questo esercizio non è facile perché non ci sarà una netta cesura. Poi mi aggancio all’etichetta di «capitalismo della sorveglianza» della sociologa Shoshana Zuboff: la fase del capitalismo in cui ci troviamo non sfrutta più solo le tradizionali materie prime, ma i dati, ormai la base della conoscenza. Questo capitalismo ci porta a estrarre valore dai nostri dati, con gli algoritmi che fanno previsioni sul futuro a partire dai dati di oggi e di ieri. Poi la nostra economia, i servizi sociali, le nostre pratiche di lavoro, sono sempre più piattaformizzati; cioè la piattaforma è il nuovo principio che regola e organizza le nostre pratiche sociali e di lavoro. Quindi un futuro sempre più esteso al presente, e più piattaformizzato, ci fa ragionare sull’omogeneizzazione che può avvenire in tutti i Paesi del mondo.
L’IA che impatto avrà sulla società del 2100?
LAURA SARTORI – La tecnologia ha ormai infrastrutturato la nostra vita quotidiana, una tendenza anche per il futuro. E si lega al tema delle disuguaglianze. Faccio un esempio sulla sanità: si parla di robot che sostituiranno i caregiver, o di sistemi IA che affiancheranno le decisioni del medico. La tecnologia ci promette grandi cambiamenti, ma la maggioranza delle persone non potrà permetterselo. Ci sono altri tipi di disuguaglianze che bisogna considerare. Per la prima volta nella storia delle tecnologie di automazione sembra che l’IA possa andare a sostituire non tanto i lavoratori manuali, ma i creativi, chi ha a che fare con lavori legati all’intelletto o alla conoscenza.
Quali altri lavori potrebbero cambiare con l’IA?
LAURA SARTORI – Fuori dall’Italia si inizia ad automatizzare, per esempio, la concessione dei crediti in banca; o i servizi di welfare pubblico, come l’attribuzione della casa popolare, o i buoni scuola, che prima prevedeva un umano a fare la checklist per l’accesso. Oggi i sistemi automatici di decisione hanno un algoritmo che valuta le tue caratteristiche per poi assegnarti in automatico un punteggio. Il punteggio sarà quello che vedrà l’umano, che deciderà se è sufficiente per farti accedere al servizio oppure no. Rendiamo più efficente un sistema, ma così apriamo il fianco alla riproduzione delle disuguaglianze sociali, perché non sappiamo come quel sistema di IA che automatizza il servizio è stato disegnato e modellato. Lo stesso vale per il mondo del recruiting (ricerca di personale, ndr). Amazon nel 2016 è stata la prima azienda ad automatizzare il suo sistema di recruiting, facendo disegnare internamente la tecnologia, e allena quell’algoritmo sui dati dei precedenti vent’anni di selezione del personale. Risultato: dopo sei mesi ci si è accorti che venivano assunti, e promossi, solo uomini. Perché, soprattutto le posizioni apicali, erano sempre state occupate dagli uomini. Immaginare l’impatto della tecnologia sulla società del 2100 ci fa riflettere sulla narrativa che si lega alla tecnologia come portatrice di progresso, di innovazione positiva, che ci fa dire che il futuro sarà sempre migliore. Ma c’è anche un lato oscuro.
VINCENZO LEVIZZANI – L’IA sta interessando anche la meteorologia. Raccogliamo sempre più dati, mandiamo nello spazio molti satelliti che restituiscono una enorme quantità di dati da analizzare. Senza l’IA non ce la potremmo fare; e poi ci aiuta a fare previsioni più accurate e veloci: il Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio termine la usa già; oggi facciamo previsioni a 3-4 giorni più precise di quelle a 24 ore di trent’anni fa.
GIACOMO GABBUTI – Se si parla di disuguaglianze, è utile pensare alla divisione funzionale del reddito, cioè tra la parte che remunera il lavoro e quella che remunera il capitale. Attualmente, si assume che i salari abbiano due terzi e il capitale il resto. In un mondo in cui l’IA sostituisce sempre di più il lavoro, pensiamo ai robot, la quota del profitto andrà crescendo. E allora il punto è: chi possiede questo capitale? Pochi monopolisti? Lo Stato? Diventa accessibile, e quindi con proprietà diffusa? Magari la nuova forma di risparmio delle famiglie? In questo ultimo caso, dice l’economista Branko Milanovic, possiamo immaginare che anche un eventuale grande aumento della quota dei profitti abbia un effetto distributivo positivo: un mondo in cui siamo tutti, in qualche modo, capitalisti. All’estremo opposto, che è la realtà odierna, abbiamo un mondo in cui pochi ultra ricchi, come Jeff Bezos, Elon Musk, controllano da soli questo capitale, come nel «vecchio» capitalismo; e allora rischiamo aumenti di disuguaglianza enormi. Oppure c’è sempre la possibilità, che qualcuno in Europa evoca, di costruire infrastrutture pubbliche che rendano tutto questo possibile e che distribuiscano questi proventi.
GUSTAVO DE SANTIS – Torno a quello che diceva Sartori: non sono d’accordo sulla paura per gli algoritmi che prendono decisioni. Se i criteri sono chiari, preferisco che a decidere sia un algoritmo, perché so che, nell’assegnazione degli asili o dei buoni pasto ad esempio, conteranno le variabili che si sono collettivamente decise (reddito, dimensione familiare, eccetera), e non l’arbitrio, gli errori, i pregiudizi o le simpatie del decisore. Altra cosa, e questo è pericoloso, è quando gli algoritmi sono scelti dai privati e/o non sono trasparenti: allora sì che pregiudizi e discriminazioni, anche involontari, possono entrare in gioco.
Che effetto avrà la robotizzazione sulle pensioni?
GUSTAVO DE SANTIS – Non mi è chiaro. Ora vedo più gli aspetti positivi: grazie alla robotizzazione i lavori saranno meno usuranti, si potrà lavorare più a lungo, la produttività potrebbe crescere, aumenteranno i salari. E poiché noi abbiamo un sistema contributivo, che calibra le pensioni future sulla base dei contributi versati, se io guadagno di più, pago più contributi, avrò anche una pensione più generosa. Dovremmo poi prepararci all’idea che non è necessario fare lo stesso lavoro per tutta la vita. Potrebbe arrivare un momento in cui a un chirurgo inizia a tremare la mano e non può più fare quel mestiere, ma questo non vuol dire che debba andare in pensione: è sempre potenzialmente utile sul mercato del lavoro, anche se non più per quella mansione. Pensiamo, ma per tempo, a costruire un futuro lavorativo diverso, in cui prima si fa un lavoro, e poi, nella seconda fase della vita, un altro.
Levizzani, nel 2100 un italiano cosa vedrà intorno a sé? Ci saranno ancora i ghiacciai, le aree boschive?
VINCENZO LEVIZZANI – Stiamo facendo un esercizio al 2100, ma questo è un problema già di oggi. La velocità a cui stanno progredendo i cambiamenti climatici è enorme e si porta dietro effetti su ogni processo fisico, chimico e biologico. Per rispondere in concreto alla domanda: se chiediamo al contadino siciliano quando potrebbe arrivare la desertificazione, risponde che il problema è già qui. E non ce la caviamo dicendo che in Sicilia ha sempre fatto caldo: i 45-50 gradi non si misuravano prima. Le foreste? Non spariranno, in alcune zone sono persino in aumento. Il problema è, invece, che certi luoghi saranno sottoposti a un regime delle acque estremo: o troppa acqua o poca. Per esempio, il Corno d’Africa è sempre più secco: l’agricoltura è di sussistenza, senza irrigazione, o piove o non mangi. Invece nelle zone monsoniche del Sud-Est asiatico assistiamo a un’accelerazione delle precipitazioni, con inondazioni, frane, smottamenti catastrofici e migliaia di morti.
Questi eventi estremi porteranno sempre più a instabilità politiche? Influiranno su altre pandemie?
VINCENZO LEVIZZANI – Ci sono studi che dicono come dietro certe migrazioni ci sia una consapevolezza del fatto che si va a vivere meglio perché si è meno esposti a eventi catastrofici. Poi ci sono già le guerre dell’acqua, che saranno sempre più una minaccia. Per esempio, siamo sull’orlo, forse non di una guerra, ma di un contrasto acceso, tra Etiopia ed Egitto per la diga sul Nilo. Gli etiopi dicono che ne hanno bisogno, ma il Sudan e l’Egitto non sono d’accordo. Il clima influirà anche sulle pandemie perché la temperatura aumenta, l’aria è più umida, oppure più secca. Certe pandemie possono trovare terreno fertile. Ma anche le vecchie «piaghe»: da più di vent’anni stiamo mettendo insieme previsioni di insorgenze malariche o di colera nei Paesi africani.
Gabbuti, aumenterà il divario tra Nord e Sud del mondo?
GIACOMO GABBUTI – Secondo me andiamo verso un mondo in cui la ricchezza conterà sempre di più, e conteranno forme di ricchezza diverse, che siamo in grado di immaginare solo fino a un certo punto. Sarà importante capire quanto saranno distribuite tra la popolazione. Poi stiamo assistendo a un ritorno, se consideriamo la storia lunga del mondo, dell’Asia, e di Cina e India in particolare. Oggi, per esempio, e riprendo quello che scriveva Alessandro Aresu, metà delle persone che vanno a studiare l’IA provengono dalla Cina, e il numero degli indiani che va in America a studiare l’IA ha superato quello dei cinesi.

GUSTAVO DE SANTIS – L’ordine mondiale sta cambiando, è vero. Pensiamo che saranno l’India, la Cina e il Sud-Est asiatico a dominare nei prossimi anni, ma in una prospettiva più lunga penso che il baricentro del mondo si sposterà verso l’Africa. Il ruolo mondiale delle nazioni è legato al peso demografico, e in particolare al peso dei giovani adulti, quelli che si affacciano sul mercato del lavoro con la loro ambizione di cacciare i vecchi, di farsi spazio. Questo afflusso di giovani in Cina sta parecchio rallentando, in India anche, ma più lentamente. Dove ancora quasi non rallenta, e non lo farà per anni, è in Africa, soprattutto quella subsahariana.
Nel 2100 avremo pagato il debito pubblico?
GUSTAVO DE SANTIS – È difficile rispondere. Il debito pubblico italiano è molto alto, circa il 140% del Pil, fuori dai parametri previsti per l’adesione al gruppo dell’euro. Questo è aggravato anche dal fatto che abbiamo un sistema previdenziale squilibrato: i contributi non bastano a pagare le pensioni e quindi bisogna attingere dalla fiscalità generale. L’aggiustamento che ho in mente per il mercato previdenziale a questo porrebbe rimedio, ma non sarebbe gratis, perché vorrebbe dire accettare di lavorare più a lungo. Un debito pubblico si giustifica quando c’è un investimento: creo una ferrovia, pago oggi più di quello che incasso, ma la ferrovia resterà alle generazioni future. Una volta c’era l’idea: indebitiamoci perché investiamo; oggi si è trasformata in: indebitiamoci per consumare, qualcuno pagherà. Questo è pericoloso, soprattutto se la popolazione si restringe per le poche nascite, perché anche se il debito rimane costante, ma si ripartisce su meno teste, diventa più gravoso su ciascuno, ed è quello che già sta avvenendo. Questo è un vulnus della democrazia: abbiamo scoperto che un modo per risolvere i problemi è scaricarne i costi sulle generazioni future, anche sotto forma di debito pubblico (oltre che, ad esempio, di danni all’ambiente).
LAURA SARTORI – Vorrei fare ancora una riflessone sull’IA: ho l’impressione che manchi la consapevolezza sulle implicazioni sociali, economiche e politiche di questi temi. Facciamo l’esempio dei «gemelli digitali» (una copia virtuale di oggetti, processi o sistemi, che simula i comportamenti reali attraverso l’acquisizione di dati dell’entità che viene replicata, ndr) di cui si parla per sperimentare, nelle smart cities, nuovi modi per migliorare i flussi del traffico. Tutto bene, però non ci sono umani, non ci sono implicazioni sociali che possiamo in un qualche modo prevedere, contenere o cambiare. Prendo anche un esempio dalla politica: il premier albanese Edi Rama ha fatto entrare nel suo governo il Primo ministro IA, Diella, un chatbot come strumento contro la corruzione. Qui cadiamo in quello che si chiama Automation bias, la percezione che di fronte alla fallibilità dell’uomo, la macchina ci salverà. Ma non si parla mai a sufficienza di come si allenano gli algoritmi, con quali dati. Come diceva Gabbuti: chi detiene la tecnologia?
VINCENZO LEVIZZANI – C’è un altro convitato di pietra che meriterebbe un dibattito a sé: l’energia. Tutto ciò costa un sacco, non solo in termini monetari. L’IA è un’idrovora per quanto riguarda l’energia. I supercomputer sono nati a suo tempo anche per le previsioni meteorologiche, però il loro funzionamento, soprattutto per l’IA, ha un costo elevato. Per raffreddarli, il National Center for Atmospheric Research di Boulder, in Colorado, ha spostato i propri in Wyoming, dove le temperature sono più basse. Ce ne stiamo preoccupando?
Come cambierà la società a livello sanitario?
LAURA SARTORI – Il mondo è cambiato con l’entrata di ChatGPT nelle nostre vite. Diventerà sempre più un modo con cui le persone si informano sulle malattie. Ma chi allena e quanto sono affidabili questi Large language model? E questo per quanto riguarda l’informazione medica, che i pazienti possono banalizzare. L’altro problema è che pazienti e dottori vedranno nei Large language model un nuovo modo per comunicare: il medico può far fare il report a ChatGPT e il paziente può interrogare ChatGPT per avere più velocemente una diagnosi. Ma così c’è una maggiore incertezza che va a cambiare la relazione tra i due. Il tocco umano che è tanto valorizzato nella relazione medico-paziente probabilmente sarà disponibile solo a chi si potrà permettere di pagare una visita, mentre i poveri ricorreranno più facilmente a ChatGPT per avere un responso, soprattutto se la sanità si privatizzerà sempre più. La società del 2100 potrebbe essere una società in cui la medicina tradizionale, migliorata dalla tecnologia, sarà a disposizione di molte meno persone, mentre la massa, che non distinguerà più tra internet e ChatGPT, si accontenterà dell’informazione di facile accesso, passibile di distorsione.
GIACOMO GABBUTI – Oggi non vediamo la regolamentazione di queste discriminazioni, non vediamo interventi distributivi, politiche lungimiranti sulle pensioni, né sul clima. Siamo abituati a pensare che non ci siano strumenti e che siamo lasciati alla deriva tecnologica. Abbiamo abbandonato la prospettiva che lo Stato possa orientare e regolamentare questi cambiamenti, e che l’IA possa essere uno strumento al servizio, e non contro, la giustizia sociale.