Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  settembre 28 Domenica calendario

La difficile convivenza tra il potere e la cultura

Cancellazioni, mancati inviti, esclusioni: sono forme di censura su cui periodicamente anche l’Italia si trova a dibattere. In questi ultimi anni diverse sono state le occasioni di polemica riguardo alla libertà di espressione che hanno coinvolto artisti, scrittori, attori, non soltanto nei Paesi autoritari, dove la carcerazione è all’ordine del giorno, ma anche nelle democrazie. È lecito dunque chiedersi quale posto occupa oggi l’intellettuale nello spazio pubblico. Quanto il potere politico è disposto a riconoscergli un ruolo di interlocutore critico?
Negli Stati Uniti show comici e satirici, critici verso Trump, rischiano di essere messi fuori onda o costretti a modificare il loro tono per non essere presi di mira. Come Jimmy Kimmel, colpevole di avere fatto commenti critici sulla morte di Charlie Kirk e sui sostenitori conservatori, sospeso dalla Abc (proprietà Disney) su pressione dell’ente federale che regola le licenze televisive e poi tornato in onda (il comico si è scusato con la famiglia Kirk e i conservatori). La Cbs ha già annunciato la chiusura, da maggio 2026, del Late Show che Stephen Colbert ha ereditato dieci anni fa da David Letterman, mentre Seth Meyers che conduce Late Night sulla Nbc ha rilanciato con un’ulteriore battuta attribuendo all’intelligenza artificiale la responsabilità di ciò che ha detto contro il presidente. In Paesi europei come Polonia e Ungheria l’uso politico delle nomine di istituzioni culturali si è intensificato, mentre qualche giorno fa un tribunale austriaco ha ordinato all’editore Verbrecher di ritirare un libro del regista e drammaturgo Milo Rau per aver attribuito a un politico frasi che avrebbero deriso vittime dell’Olocausto. Secondo Rau, che pure ha ammesso l’errore, il caso rientra in una pratica più ampia: l’uso di strumenti legali per silenziare le critiche.
Se dai poeti cortigiani del Rinascimento alle avanguardie del Novecento, gli scrittori hanno sempre definito la propria posizione rispetto alle istituzioni, oggi è spesso il potere a delimitare i confini della legittimità culturale. Gli scontri su quali autori invitare nei festival finanziati con fondi pubblici hanno reso evidente anche in Europa che la politica culturale tende sempre più a selezionare voci compatibili con il clima governativo. Questi interrogativi sono tornati al centro del dibattito nel nostro Paese lo scorso anno quando l’invito della Buchmesse di Francoforte all’Italia come Paese ospite d’onore si è trasformato in un caso rovente. I fatti sono noti: dalla delegazione ufficiale di circa cento autori italiani, curata dal commissario straordinario del Governo Mauro Mazza, è stato escluso Roberto Saviano. La decisione di non invitare uno tra gli autori più noti e più critici verso il governo Meloni, è stata giustificata con motivazioni editoriali e organizzative poco convincenti. Anche perché arrivava dopo un’altra pesante cancellazione: il monologo di Antonio Scurati, in Rai, in occasione del 25 aprile 2024. I due non sono figure addomesticabili: il primo ha fatto della scrittura una forma di resistenza civile fin dall’uscita, ormai quasi vent’anni fa, di Gomorra, il libro che gli ha procurato le minacce della camorra e la scorta; il secondo, autore della monumentale pentalogia su Mussolini, è diventato un simbolo antifascista pur non venendo da una storia di militanza. Lo ha detto chiaramente qualche settimana fa al Festivaletteratura di Mantova: «Sono un ragazzo degli anni Ottanta, epoca del disimpegno, del riflusso. Per aver scritto romanzi su un argomento esplosivo mi sono trovato a essere bersaglio di accaniti attacchi di fazione, di una campagna di aggressione verbale da parte di alcuni dei più alti rappresentanti istituzionali».
Tenere fuori Saviano e Scurati da un evento che avrebbe dovuto rappresentare la pluralità della cultura italiana è apparso a molti come un atto politico, anche in considerazione della vicenda giudiziaria che ha opposto Saviano in tribunale alla premier Giorgia Meloni da cui è stato denunciato. Lo scrittore ha sempre parlato di un «veto» su di lui da parte dell’attuale governo e ha spesso messo in rilievo un punto dirimente: la sproporzione tra chi attacca dal basso, come può fare uno scrittore, e chi attacca da posizioni dominanti, di potere. Come è accaduto a Michela Murgia, voce critica capace di parlare di femminismo, diritti civili e politica, spesso percepita come una minaccia e attaccata sui social da esponenti politici come Matteo Salvini.
Fuori dalla delegazione ufficiale, invitati direttamente dalla Buchmesse e dal suo direttore plenipotenziario Jürgen Boos, Saviano e Scurati sono stati protagonisti di una sorta di controprogrammazione che, per tutta la durata della Buchmesse, ha fatto da contrappunto al programma ufficiale italiano. Anche per le reazioni di altri scrittori, come Sandro Veronesi, Emanuele Trevi, Francesco Piccolo, che hanno rinunciato a partecipare alla delegazione in segno di protesta, o di Paolo Giordano, Nicola Lagioia, Donatella Di Pietrantonio, che hanno usato gli spazi a disposizione, con il supporto del Pen Berlin, come momento critico per riflettere, insieme ad altri, sulla libertà di espressione. L’altra Italia era, non a caso, il titolo di questo spazio a disposizione. Lo stesso Giordano, annunciando nel 2023 il ritiro della sua candidatura a direttore del Salone del libro di Torino del dopo-Lagioia, aveva parlato di «mancanza di condizioni di indipendenza».
Anche Ricardo Franco Levi, nel 2023 commissario straordinario per l’Italia Paese ospite a Francoforte, non certo etichettabile come organico alla destra, è caduto nella trappola dell’invito ritirato per compiacenza al governo: prima propone formalmente a Carlo Rovelli di tenere la lectio magistralis di inaugurazione della Buchmesse, poi revoca, via mail, l’invito. L’intervento del fisico al concertone romano del Primo Maggio, critico sull’impegno in Ucraina e sul ministro della Difesa Guido Crosetto, aveva suscitato «clamore, eco e reazioni» tali che la sua partecipazione inaugurale avrebbe potuto – secondo Levi – non essere vista come celebrazione della ricerca e della conoscenza, ma offrire l’occasione di polemiche e attacchi, fonte di imbarazzo per chi avrebbe rappresentato l’Italia. Il caso contribuì a mettere in discussione la posizione di Levi, indotto alle dimissioni dall’allora ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano.
A fare da cornice c’è il tema della cosiddetta egemonia culturale della sinistra, concetto che ha radici lontane, in Antonio Gramsci, secondo cui una classe dirigente non deve solo governare sul piano politico ed economico, ma imporre i propri valori e visione del mondo come senso comune condiviso. Sradicare questa egemonia, rivendicare la necessità di una cultura di destra che restituisca spazio a valori nazionali, identitari, tradizionali, religiosi è stato il sottofondo ideologico che ha caratterizzato molte iniziative del governo su cinema, Rai, nomine di istituzioni culturali. Secondo i critici, più che una egemonia culturale, un dominio ideologico calato dall’alto e tradotto in spoils system.
A questo clima molti, soprattutto a sinistra, hanno associato la decisione della Commissione consultiva per il teatro del ministero della Cultura di declassare la Fondazione Teatro della Toscana, diretta da Stefano Massini (ne fanno parte il Teatro della Pergola e quello di Rifredi, a Firenze, e l’Era di Pontedera, in provincia di Pisa). Tolto il riconoscimento di Teatro nazionale, è rimasto quello di Teatro di rilevante interesse culturale: il che significa non solo un ridimensionamento del prestigio ma anche un taglio dei finanziamenti di circa 400 mila euro all’anno. Massini e la sindaca di Firenze, Sara Funaro, lo hanno definito un atto politico, di «punizione» e «bullismo istituzionale», mentre tre membri su sette della commissione si sono dimessi in segno di dissenso. Il ministro Giuli ha ribadito tutta la sua stima a Massini, la Fondazione ha fatto ricorso al Tar.
In Algeria lo scrittore Boualem Sansal, naturalizzato francese, settantacinquenne, malato, è in carcere, condannato a 5 anni per «minaccia alla sicurezza nazionale». In Russia il popolarissimo Boris Akunin, da tempo critico verso il regime di Putin e sostenitore dell’Ucraina, ha appena ricevuto una condanna a 14 anni in contumacia per reati che vanno dal favoreggiamento del terrorismo alla violazione delle leggi sugli «agenti stranieri». Scrittori, artisti, musicisti russi sono spesso sotto il fuoco di una doppia censura, in patria e all’estero. Nel 2022 una serie di conferenze di Paolo Nori su Dostoevskij in programma all’Università Bicocca di Milano sono state annullate «per evitare tensioni», due anni dopo la traduzione in russo del suo Vi avverto che vivo per l’ultima volta, dedicato alla poetessa Anna Achmatova, è stata emendata. Nel nuovo libro, appena uscito da Utet, Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (sottotitolo provocatorio Diario di un filorusso) Nori cita un tweet del giornalista e politologo Kirill Martynov che proponeva di organizzare il Club dei filorussi anonimi: «Ci troveremo, ci siederemo in cerchio e diremo: “Buongiorno, mi chiamo John e mi piace Dostoevskij”».