La Lettura, 28 settembre 2025
Barcellona addio. Divento apolide della letteratura
Per capire la ragione definitiva, ultima di tante, che ha «costretto» Ildefonso Falcones a dichiararsi ufficialmente apátrida literario, apolide letterario, bisogna consultare il calendario: 29 novembre-7 dicembre 2025. Sono i giorni in cui in Messico si terrà la Fiera del libro di Guadalajara, il più importante evento editoriale per la lingua spagnola e il principale appuntamento culturale dell’America Latina. Quest’anno la città ospite d’onore, invitada de honor, è Barcellona; la commissione guidata da Anna Guitart ha scelto il motto Verranno i fiori, frase della barcellonese Mercè Rodoreda (1908-1983), autrice antifranchista e indipendentista. Anche Falcones è nato a Barcellona (nel 1959). Tra i cantori viventi della sua terra natale, campione del romanzo storico, è il più noto, oltre che il più venduto: ha raccontato la città medievale nel bestseller La cattedrale del mare, primo capitolo di una saga che ha due seguiti; ha narrato (con Il pittore di anime) la metropoli modernista di inizio Novecento. Eppure, tra i sessanta scrittori «rappresentativi» della ciutat invitati in Messico dalla commissione – compreso l’irlandese Colm Tóibín, autore di Omaggio a Barcellona, del 1990 – Falcones non c’è. «Non esisto». A «la Lettura», perciò, ha deciso di confidare la sua decisione: «Rinuncio alla cittadinanza letteraria».
Catalano per il resto degli spagnoli, temuto unionista che scrive in castigliano secondo gli indipendentisti catalani, innamorato di una città che continua a farlo soffrire e a dargli spunti per nuovi romanzi, Falcones ha un sorriso amaro. Nella sua bella casa illuminata dal sole di settembre – città «alta», sopra la Diagonal, lontano dal mare e dall’overtourism, qui Barcellona sembra la Svizzera tanto è silenziosa – osserva: «Guadalajara non è altro che la fedele continuazione delle fiere di Francoforte, Londra, Parigi, Buenos Aires. In tante occasioni Barcellona è stata ospite d’onore, ma io non sono mai stato convocato». Alzata di spalle: «Fino a qualche anno fa in città c’era pure un concorso per il romanzo storico. Ripeto: un premio per il romanzo storico! Non pretendevo di vincerlo, ma avrei gradito un invito ad applaudire il primo arrivato. La chiamerei una forma di invisibilizzazione deliberata».
Falcones non è ingenuo e nemmeno naïf, conosce benissimo i motivi di questo ghosting istituzionale. «Ci sono di mezzo motivi politici, il mio parlare e scrivere in castigliano. Altri scrittori catalani lo fanno, ma senza subire questo isolamento». Soprattutto: «Sono un padre di famiglia con quattro figli maschi, eterosessuale, bianco, cristiano, liberale... Forse non sono destinato a trionfare in questo mondo. Anzi, nella società di oggi rappresento l’antieroe, probabilmente non c’è spazio per me. Potrei aggiungere altre presunte ragioni: vengo da una buona famiglia, posso considerarmi un privilegiato anche se non eccessivamente, visto che sono rimasto orfano a diciassette anni, ho studiato dai gesuiti».
Inutile combattere ancora. Aspettare un riconoscimento che non arriverà, ricordare quegli undici-dodici milioni di copie vendute nel mondo, i quattro romanzi su sette ambientati (del tutto o in parte) a Barcellona. Falcones prende atto una volta per tutte: «La mia città non mi ama come scrittore». Dunque: «Mi dichiaro apolide letterario. Non ho patria». Constatazione risolutiva. Anche se lo spirito del guerriero – alla Estanyol, cognome assai caro a chi conosce i suoi romanzi – rimane: «Non sono disponibile ad accettare che una commissione ritenga la mia presenza a Guadalajara inadatta a rappresentare la letteratura barcellonese, considerando che solo in Messico ho venduto 380 mila copie. Non sono più disposto ad ascoltare giudizi di questo genere. Ho sempre detto che della critica mi importa poco, che ho a cuore solo il pubblico. Per questo ritengo che la mia esclusione sia un insulto ai lettori messicani. Loro che sono così affettuosi, che mi accolgono sempre con interesse. La loro fiera tra l’altro è vivace, calda, piena di bambini... Cosa penseranno vedendo che non c’è lo scrittore della Cattedrale del mare? Che non c’è l’autore degli Eredi della terra? Ve lo dico io: che non sono abbastanza rappresentativo. Che di quei sessanta intellettuali io sono il sessantunesimo».
C’è anche la questione italiana: «Sono appena rientrato da Pordenone, dove mi è stato dato un premio importante, il Crédit Agricole “La storia in un romanzo”. Non considerarmi degno della fiera di Guadalajara è un’offesa rivolta anche a chi in Italia mi ha voluto consegnare quel riconoscimento» (prima di lui, tra gli altri, lo hanno ricevuto i Nobel Annie Ernaux, Wole Soyinka, Olga Tokarczuk...). Il tono è più duro, quasi drammatico: «Da quasi trentacinque anni lavoro sodo in campo letterario. Non sono più disposto a subire questo gioco silenzioso. E voglio davvero che questo mio messaggio arrivi ai lettori italiani e a quelli messicani perché non sopporto che pensino di aver letto inutilmente i libri scritti da un autore che nessuno considera». La conclusione è semplice: «A questo punto, visto come stanno le cose, ritengo di non considerarmi più barcellonese. Non come narratore, almeno. Sono un apolide. La cosa curiosa è che per il resto della Spagna sono catalano e per i catalani sono un forestiero. Sono straniero ovunque».
Delusione più che rassegnazione. Tristezza più che rabbia. Anche quando gli si mostra il video promozionale di Barcellona a Guadalajara, «siamo la città dei prodigi; di Pepe Carvalho e La Colometa (protagonista del romanzo La piazza del Diamante di Mercè Rodoreda, ndr); di Enrique Vila-Matas (altro barcellonese che scrive in castigliano, ndr), di Carmen Laforet e Ana María Matute; di Roberto Bolaño (cileno, ndr) e Gabriel García Márquez (colombiano, ma la pluripremiata biblioteca cittadina è dedicata a lui, ndr)». Testimonial blasonati: nelle immagini si intravede anche un firmacopie di Alicia Giménez Bartlett, che è castigliana ma ambienta i gialli con protagonista Petra Delicado a Barcellona (l’autrice non è nell’elenco degli ospiti della rassegna messicana). Quanto poi agli invitati «ufficiali» di Guadalajara, Falcones elenca: «Ci sono tre grandi “apripista” come Javier Cercas, Eduardo Mendoza e Carme Riera, oltre a Tóibín che ha vissuto qui negli anni Settanta. Sono autori di livello, che stimo. Ma gli altri? Scrittori poco noti. Non me la sto prendendo con loro. A sessantasei anni però non sopporto questo clima di piccola vendetta, di scaramuccia. Cerco di non rimanerci male. Ma è inevitabile sentirmi deluso e triste per questa invisibilità». Mentre in Messico, vetrina prestigiosa, «saliranno sul palco indipendentisti e attivisti di tutti i generi: ho l’impressione che la cultura sia strumentalizzata, che una fiera letteraria sia diventata un palcoscenico per una serie di rivendicazioni. Facciano quello che vogliono ma io mi chiamo fuori in quanto apolide. Oddio, se in Italia volessero offrirmi la cittadinanza letteraria potrei pensarci...».
La politica insegue Falcones. E lui, che ha sempre dichiarato di scrivere «solo» per intrattenere, ha riempito i suoi romanzi di lotte politiche. Per i diritti soprattutto. Delle minoranze: i moriscos, musulmani costretti a convertirsi al cristianesimo dopo il 1492 (in La mano di Fatima); i gitani (La regina scalza). Delle classi più umili nella lussuosa città modernista (Il pittore di anime). Delle donne (Schiava della libertà e tante altre pagine dei suoi libri). «Prima ancora che scrivessi La cattedrale del mare – dice – un amico mi chiese: sei ricco? No, risposi. Ti devi alzare ogni giorno per lavorare e mantenere la tua famiglia? Sì. Prima o poi erediterai? No. Allora non puoi essere di destra, concluse. Diciamo che ho sempre avuto una prospettiva liberale. Nel corso della mia vita ho votato per i socialisti del Psoe, per i catalanisti, ho votato per Felipe González che oggi tutti consideriamo essere stato un grande statista... Diciamo che mi considero un liberale: il lato conservatore è emerso con gli anni, è inevitabile quando si raggiunge una certa età. Mi piace pensare che in ogni parte politica ci sia qualcosa di buono purché si evitino le posizioni radicali che purtroppo ora vanno per la maggiore».
Si fa più cupo Falcones quando la conversazione tocca i temi di oggi, le guerre, la democrazia, la situazione in Spagna e in Catalogna oggi. L’economia. La percezione di una nazione ricca e vincente e «la doccia fredda» della vita di tutti i giorni. «La verità è che due dei miei quattro figli che sono ingegneri con una laurea magistrale e buone professioni (i quattro Falcones junior hanno tra i ventidue e i trent’anni, ndr) non potrebbero comprarsi un appartamento. Quindi l’economia spagnola va bene? Non tanto. Molti ragazzi non possono andarsene dalla casa dei genitori. Anzi potrebbero, ma non mangerebbero. Sono stressati, continuano a procrastinare scelte che incideranno sulle loro vite. Costantemente sentiamo parlare dei problemi relativi agli alloggi, di precari con salari da fame. E questa sarebbe una nazione prosperosa? Non mi sembra. Forse lo è a livello macroeconomico, cosa che naturalmente favorisce i grandi investitori, le big tech. Ma quale futuro è riservato alla gioventù? Quella che dovrebbe lavorare con entusiasmo e lo ha perso?». Il tono dell’avvocato (Falcones è stato un famoso civilista prima di abbracciare esclusivamente la carriera di scrittore), di chi conosce alla perfezione le regole dell’arringa, si fa sentire.
La condizione di autore «scomodo» in una patria che non lo riconosce, le disparità sociali, il futuro di Barcellona: il tema che continua a emergere, presenza incombente che probabilmente è il vero motore di questa chiacchierata in un pomeriggio tiepido di inizio autunno, è il separatismo catalano. «È di per sé un fenomeno radicale che non conosce fine perché qualora conseguisse i suoi obiettivi perderebbe la ragione di essere. Respiriamo un clima di insoddisfazione permanente, di rivendicazione continua che limita molte possibilità: di creare ricchezza, di essere felici, di godersi la vita. Qui in città si avverte la costante necessità di “caratterizzarci”: uno sfinimento. Che poi va ammesso: la Catalogna gode già di un’indipendenza di tutto rispetto, l’unica cosa che non abbiamo è un esercito, esistono pure quelle che chiamo semiambasciate catalane all’estero. Da che sono nato sento parlare di rivendicazione catalana, cosa francamente estenuante. Come se si dovesse sempre cercare un nemico. Non credo si possa vivere così per sempre. Lasciamo un po’ di spazio alla felicità, proviamo a goderci quello che abbiamo».
In effetti è difficile evitare qualsiasi riferimento all’indipendentismo stando a Barcellona. Le occasioni pubbliche non mancano. Oggi, per esempio, domenica 28 settembre, si chiude la Settimana del libro in catalano, importante evento culturale che si tiene annualmente a Barcellona, con l’obiettivo di promuovere e diffondere la lettura e l’editoria in lingua catalana. Falcones nota: «Una bellissima iniziativa, lo dico sinceramente. Peccato che l’insigne filosofo e traduttore Pere Lluís Font abbia detto in quella occasione che in Catalogna dobbiamo liberarci dal colonialismo linguistico spagnolo. Ora... Franco è morto cinquant’anni fa e secondo questo signore che è un eminente pensatore e ha un forte seguito nel suo campo il colonialismo sarebbe dato dal fatto che continuiamo a leggere le maggiori opere in castigliano. Ma qual è il problema: pubblicatele in catalano. Dove sta scritto che siamo obbligati a leggere il Don Chisciotte in castigliano? Di quale colonialismo stiamo parlando?».
Un’ossessione, la definisce Falcones, che si dichiara molto pessimista in merito al futuro della Catalogna: «Qualunque spinta di carattere nazionalista è involutiva. Barcellona è sempre stata una città aperta, universale, cosmopolita. Adesso è provinciale. Abbiamo rinunciato alla “Pasarela Gaudí” (le sfilate di moda che si sono tenute in città fino al 2006, ndr), il Gran Premio di Formula 1 dal 2026 sarà a Madrid. Perdiamo terreno in moltissimi ambiti. Perché? Perché l’unica cosa che davvero ci interessa è la cultura catalana. Che è meravigliosa, su questo non voglio ci siano fraintendimenti. Però so di medici che rifiutano di venire a lavorare qui perché non parlano catalano. O professori di altri ambiti che hanno rinunciato a lavorare in Catalogna perché obbligati a parlare in catalano. Barcellona è bellissima, nessuno lo discute, ma esistono anche Parigi, Londra, Roma: se io sono un grande professionista nel mio campo ma devo imparare il catalano beh, magari opto per Parigi, me la caverò parlando inglese. Credo che l’esempio perfetto di quanto stiamo vivendo sia proprio Guadalajara».
Barcellona in bilico. Stretta tra spinte separatiste e ambizioni globali. «Non credo, però, che diventerà indipendente. Mi sembra assurdo che in un mondo dall’afflato universale e sempre più globale un Paese per giunta piccolo possa diventarlo. Dal punto di vista strettamente tecnico ci si potrebbe riuscire, molti obiettivi in questo senso sono già stati raggiunti, ma volere andare oltre mi sembrerebbe un macroscopico errore. Pensiamo al debito pubblico: il governo Sánchez ha deciso di condonare alle comunità autonome del Paese 83 miliardi, Catalogna compresa (è la regione che ne ha più beneficiato, cosa che dai Popolari dell’opposizione è vista come una concessione agli indipendentisti per ottenere il loro sostegno, ndr), ma i conti restano comunque in rosso. Inventare un Paese nuovo sarebbe un disastro economico. Le infrastrutture, il porto... Essere indipendenti sarebbe uno sforzo economico così immane che lo stesso Jordi Pujol (presidente della Generalitat catalana a più riprese negli anni Ottanta e Novanta, ndr) all’epoca aveva ammesso che sarebbe stato difficilissimo sostenere economicamente un processo del genere. E saremmo fuori dall’Europa: poi per entrarci avremmo bisogno dell’unanimità di tutti i Paesi».
Il convitato di pietra, mai nominato, è Carles Puigdemont, il separatista che nell’ottobre 2017 dichiarò la secessione in Parlamento, «ritirata dopo soli sette secondi». «Vorrei ricordare – aggiunge Falcones – che a seguito di quella scellerata dichiarazione di indipendenza tante grandi aziende lasciarono la Catalogna. Perfino una banca storica come La Caixa trasferì la sede sociale a Palma di Maiorca. O il Banco Sabadell che però quest’anno è tornato a Barcellona. Allora se pensiamo che una semplice affermazione di indipendenza ha causato questo fuggi fuggi, non servono altre parole. Non è fantapolitica e nemmeno l’opinione di Falcones, ma quanto è successo dopo il discorso di quel signore che fa il pendolare tra Bruxelles e Waterloo» (sempre Puigdemont, in autoesilio dal 2017).
Il pessimismo peggiora quando si tocca il tema democrazia: «A mio avviso non esiste più. Ci fanno credere che votare ogni quattro anni assicuri la salute dei sistemi democratici, ma è una presa in giro. Quel voto non serve a niente perché le promesse che i politici fanno in campagna elettorale sono puntualmente disattese durante la legislatura. Per non parlare degli autoritarismi dilaganti. Guardate quanti autocrati governano il mondo: Trump, Putin, Netanyahu, Milei, Xi. Chi ha preso il potere non vuole cederlo, questo populismo esacerbato è un po’ ovunque. Si risponde a uno scandalo con uno scandalo più sensazionale, e se lo scandalo non esiste si inventa. Niente di nuovo, ce lo ha insegnato Hitler, è una tecnica populista. Come la ricerca ossessiva di un nemico esterno per nascondere le proprie lacune. Purtroppo le autocrazie non smettono di imporsi e per essere coerente forse non dovrei più votare».
Domanda a bruciapelo a proposito dei politici: gioco della torre, sulla cima sono in tre, Puigdemont, il presidente socialista della Generalitat de Catalunya Salvador Illa e il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez. C’è posto solo per uno, chi salva? «Per non scegliere salirei anche io così cadremmo tutti e quattro». Poi lo sport. Nadal o Alcaraz? «Nadal. Rafa è nella storia dello sport mondiale, Carlos Alcaraz lo sarà, vedremo la sua traiettoria». Si è riconciliato con il Barça? «Sì, oltre che per il bel gioco, resto un tifoso perché è venuta meno l’abitudine di gridare “indipendenza” al minuto 17 della partita (si tratta del minuto 17:14 e indica il 1714, anno della sconfitta contro i Borbone, che costò alla Catalogna l’indipendenza, ndr). Per fortuna lo sport è tornato a essere sport». Cosa fa un apolide letterario? «Non lo so ancora. So solo che la mia decisione è nata dopo una lunga riflessione. Era arrivato il momento di lasciarmi tutto alle spalle e affrontare questo passo. Non potevo aspettare oltre, basti vedere cosa è successo con la fiera messicana. Nessuno si è sorpreso della mia esclusione, nessuno ha alzato il dito per dire Falcones non c’è, possibile? Anzi. Tutti sembrano molto soddisfatti del plotone di rappresentanza barcellonese a Guadalajara. Stesso atteggiamento dei centri culturali: non mi hanno mai contattato università o istituzioni per raccontare il romanzo storico. Non importa. Non mi sono mai venduto. Ho sempre vissuto con discrezione e continuerò a farlo».
Eppure, nonostante l’amarezza, i mancati inviti, l’esclusione da certi circoli intellettuali, lo sguardo diffidente dell’intellighenzia catalana, nonostante l’angoscia per il futuro, Ildefonso Falcones non ha mai pensato, neanche una volta, di lasciare la «sua» Barcellona: «No, non è possibile. Ci sono troppi bisogni a cui devo rispondere qui. L’idea di andarmene non è praticabile». E altrettanto impensabile è ignorare la potenza ispiratrice della propria città natale. Del resto lo scrittore lo ha anticipato a Pordenone otto giorni fa: i lettori possono sperare in un quarto capitolo della saga degli Estanyol, che da Barcellona (sarà un caso?) si è trasferita a Napoli per il terzo episodio, In guerra e in amore (edito da Longanesi, come tutti gli altri romanzi). «Ho sempre detto che degli Estanyol scrivo ogni dieci anni. Quindi sì. Se Dio mi concederà di vivere ancora ci sarà la quarta storia. Un’altra figlia della Cattedrale del mare».