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 2025  settembre 26 Venerdì calendario

L’industria alimentare è già in grado di sfamare altri due miliardi di persone

Il mercato globale dei servizi finanziari oggi vale oltre 20 mila miliardi di dollari, quasi un quarto del prodotto economico totale. La produzione agricola vale circa un quinto di quella cifra. Se i mercati finanziari perdessero un quinto della loro valutazione, tornerebbero alle dimensioni di una decina di anni fa. Ma se la produzione agoalimentare si riducesse di un quinto, oltre un miliardo e mezzo di persone non avrebbe di che sfamarsi. Azioni e criptovalute possono essere scambiate, non mangiate. E se scomparissero dalla circolazione il riso e il frumento, il valore dei cui mercati nel 2021 era di poco superiore a quello degli smartphone (circa 400 miliardi di dollari), ci sarebbero carestie di massa «e la morte di una quota significativa degli otto miliardi di persone che abitano il pianeta»: lo spiega Vaclav Smil nel volume Sfamare il mondo. Storia e futuro del cibo (Einaudi, pagine 242, euro 20). Smil, ambientalista canadese di origine ceca, autorevole studioso su tematiche quali il cambiamento climatico, le fonti energetiche e la storia dell’innovazione tecnologica, raccoglie una massa impressionante di dati attinenti all’evoluzione delle attività agroalimentari. Li esamina con professionale distacco restando a distanza di sicurezza dalle sicurezze pseudoscientifiche usualmente divulgate da chi si arrabatta per motivi politici o ideologici sulle medesime tematiche. E avverte contro l’abitudine a trarre conclusioni semplicistiche su dati parziali, a patire dall’insensatezza dell’uso del Prodotto interno lordo (Pil) quale strumento principe per misurare l’andamento delle economie. Stando al Pil infatti l’industria alimentare appare “la più marginale” delle attività, e in costante calo. Se nel 1970 il Pil agroalimentare era il 10 percento della produzione globale di beni e servizi, nel 2020 era del 4 percento e nei Paesi più avanzati quali Regno Unito, Germania e Stati Uniti rappresentava rispettivamente solo lo 0,8, 0,9 e 1,0 percento della produzione economica.
È vero che nell’evoluzione della specie la produzione di cibo ha occupato un numero di ore sempre minore in virtù degli sviluppi tecnici: se nel Medioevo ci voleva una decina di lavoratori nei campi per mantenere una persona che in città si dedicasse ad altro, nelle società industriali contemporanee solo una percentuale minima della forza lavoro opera nei campi, dove tra l’altro sempre di più l’attività verrà robotizzata (in Australia lo sviluppo di fattorie robotizzate è già assai avanzato). Ma si consideri la produzione di alimenti nel suo complesso: i cibi derivano tutti dall’agricoltura, poiché la catena alimentare – è bene ricordarlo – va dai campi ai grandi carnivori, passando per gli allevamenti e l’acquacoltura. E la filiera che da i campi arriva alle nostre tavole include una massa enorme di attività (dai macchinari per lavorare la terra ai combustibili per trasportare i prodotti, ai sistemi di immagazzinamento). Calcolando tutti questi sviluppi e con l’avvertimento che comunque, data la loro enorme complessità, i risultati sono indicativi e non esaustivi, Smil stima che i consumi energetici (un valore più vicino alla realtà di quanto possano essere le valutazioni fondate sui dati monetari) necessari per produrre e consumare cibo si attestino tra il 25 e il 30 percento del totale. E così dimostra che il settore agroalimentare ha un’importanza primaria non solo perché consente alle persone di vivere, ma anche perché occupa una posizione assai rilevante nel ciclo economico. Con aspetti problematici. Infatti non sono solo l’industria, l’autotrasporto o i sistemi abitativi a generare i gas-serra: una percentuale che Smil stima attorno al 34 percento del totale deriva dalle attività agricole. Con effetti che sulle colture sono in parte negativi ma in parte anche positivi. Non a caso vi sono diversi prodotti alimentari coltivati proprio nelle serre. Nel mondo oggi non mancano gli alimenti, anzi, talvolta la loro abbondanza è un problema maggiore della loro carenza: vi sono solo alcune zone dell’Africa dove la carenza di alimenti costituisce ancora un grosso problema. Nei principali paesi industrializzati le persone dispongono di 3500 e più kilocalorie al giorno, a fronte di una necessità di non più di 2500 kcal e di un consumo effettivo che, soprattutto dove la popolazione è più anziana, tende a decrescere. La differenza è spreco che ingrassa le discariche. Circa 1000 kcal di spreco al giorno per persona. Cosa che può essere vista come energia libera: una potenzialità. Di dare di che mangiare a chi non ne ha. Di permettere un ulteriore aumento della popolazione mondiale oggi attesta sugli 8 miliardi di persone: solo col cibo che si produce oggi potrebbero vivere un paio di miliardi di altri esseri umani in più. «È ragionevole sostenere che il mondo sarà in grado di fornire nutrimento a una popolazione sempre più numerosa anche dopo la metà del XXI secolo» conclude Smil. Il quale, fondandosi su dati e non su opinioni interessate, offre uno sguardo ottimista sul futuro del mondo.