il Fatto Quotidiano, 26 settembre 2025
Ilva, la gara di Urso è un flop: Jindal verso il no all’offerta
La premessa è d’obbligo: il tentativo per evitare un epilogo disastroso andrà avanti, a oltranza, fino a poche ore dalla scadenza, cioè alla mezzanotte di oggi. Ma, a quanto risulta al Fatto, Jindal non è più interessata a presentare un’offerta per l’ex Ilva nella gara bandita dal ministero delle Imprese. Il gruppo indiano dell’acciaio, nato da una costola della famiglia Jindal (l’altro ramo è impegnato in Italia a Piombino), era l’ultimo potenziale partner industriale rimasto nella procedura dopo l’addio degli azeri di Baku Steel.
Se confermata, sarebbe una pessima notizia per il siderurgico tarantino, visto che in corsa per acquistare l’intero gruppo rimarrebbero solo due fondi americani, Bedrock e, negli ultimi giorni, Flacks Group, attivi in operazioni di “ristrutturazione” di gruppi in difficoltà e per questo le offerte sarebbero a cifre simboliche e prive di peso industriale. Flacks, per dire, offre 1 euro per tutto il gruppo e addirittura promette zero esuberi. È probabile che arriveranno invece offerte per alcuni pezzi del gruppo, come gli impianti liguri. Uno spezzatino che è il peggiore scenario per i 10 mila dipendenti.
A convincere Jindal a tirarsi indietro c’è lo stato disastroso degli impianti e il nodo che da sempre accompagna tutta la vicenda: chi ci mette i soldi. Ilva perde dai 30 ai 50 milioni al mese, la gestione commissariale di Acciaierie d’Italia non ha fermato l’emorragia, nell’ultimo incontro con i sindacati a lanciato l’allarme sulla mancanza di liquidità e ha chiesto di alzare l’uso della cassa integrazione fino a un massimo di quattromila dipendenti (oggi siamo fermi a 2900).
A preoccupare gli indiani c’è soprattutto la fine, a partire dal 2026, delle quote gratuite di certificati di emissione di CO2, che costerebbe al gruppo siderurgico 250-300 milioni l’anno, un colpo da un miliardo e mezzo nel quinquennio. Per questo hanno chiesto misure di ristoro, magari sotto forma di linee di credito con garanzia pubblica, che sembrano difficilmente percorribili visti i paletti dell’Antitrust europeo, che potrebbe contestare aiuti di Stato. Il tentativo in extremis del governo è di convincere Jindal a presentare un’offerta, magari “fortemente condizionata”, in modo da non vincolarsi troppo, ma tenendo una porta aperta che permetta anche al ministro Adolfo Urso di guadagnare tempo.
Jindal, attraverso Vulcan Steel, aveva presentato un’offerta nella prima gara indetta da Urso e conclusasi a marzo scorso. Offriva qualche centinaio di milioni e – in prospettiva – un ritorno della produzione a 6 milioni di tonnellate di acciaio annue con due forni elettrici alimentati a “preridotto”, importato in buona parte dai suoi impianti in Oman. Il ministero gli ha preferito l’offerta di Baku Steel, minuscolo gruppo azero interessato, attraverso le autorità dell’Azerbaijan, più a crescere come fornitore di gas all’Italia (suo primo cliente) attraverso una nave rigassificatrice a Taranto, che a produrre acciaio. Urso si è impuntato per mesi sulla nave, nonostante la contrarietà del sindaco di Taranto a ospitarla nel porto, ed è arrivato a minacciare di spostare gli impianti di produzione di preridotto in altre regioni. Alla fine, però, a sfilarsi è stata la stessa Baku – che non ha mai garantito i fondi necessari a supportare gli ingenti investimenti previsti e nemmeno la liquidità per le attività correnti – lasciando il ministero in enorme difficoltà.
Si vedrà a breve, alla mezzanotte di oggi, se il tentativo in extremis di Urso&C. sortirà qualche effetto. La linea di non presentare un’offerta è stata fissata da Venkatesh Jindal, figlio del presidente e fondatore del gruppo, Naveen Jindal, che supervisiona le attività all’estero. A rendere ancor meno probabile l’ipotesi che Jindal resti in gara c’è l’offerta che il gruppo ha fatto in Germania per rilevare la divisione siderurgica di Thyssenkrupp, in forte crisi a causa degli elevati prezzi dell’energia dopo lo stop al gas russo e le difficoltà del settore in Europa, fiaccato dalla concorrenza cinese e da una crisi da sovracapacità produttiva. A trattare in Germania c’è proprio Venkatesh, che si sarebbe impegnato col governo a un piano per decarbonizzare il gruppo con annessa promessa di realizzare l’impianto di pre-riduzione (alimentato a idrogeno) a Duisburg. Il gruppo verrebbe portato a 9 milioni di tonnellate di produzione (con cinquemila esuberi), ma non avrebbe il problema dei permessi dei certificati di emissione.
Senza veri acquirenti industriali, all’Ilva non resterebbe che la vendita a pezzi di quello che fu il più grande siderurgico d’Europa. Oppure si potrebbe prendere altro tempo, cosa non incompatibile con un’eventuale offerta “condizionata” di Jindal. D’altronde si è già perso quasi un anno.