Corriere della Sera, 26 settembre 2025
Intervista a Luca Guadagnino
Luca Guadagnino, qual è il suo primo ricordo?
«Una distesa di sabbia, e due occhi azzurri».
Quale sabbia, quali occhi?
«La sabbia è il Sahara, gli occhi azzurri sono quelli di Peter O’Toole. Sono in braccio a mia madre, e sto vedendo Lawrence d’Arabia di David Lean in uno splendido cinema costruito dai fascisti ad Addis Abeba, dove ho vissuto i primi sei anni. Quella per me fu una vera e propria scena primaria: tra l’altro mia madre era “innamorata” di Peter O’Toole, e mio padre aveva gli occhi azzurri».
Lei nasce nell’agosto del 1971 a Palermo, sotto il segno del leone.
«Sono nato prematuro, e a un mese mi portarono in Etiopia, dove papà, insegnante di italiano e storia, aveva vinto una cattedra».
I suoi dove si erano incontrati?
«A Casablanca, all’epoca una città cosmopolita. Vorrei fare un film sull’incontro tra i miei genitori, ma mia madre è troppo pudica per raccontare i fatti e forse i segreti, e papà non c’è più. Era un irrequieto, ma essendo del 1932 era troppo piccolo per la Resistenza e troppo grande per il Sessantotto. Andò a insegnare all’estero, e conobbe mia mamma, che dall’Algeria si era spostata in Marocco con sua sorella Hafida e sua madre Malika. Non si è mai capito perché, è uno dei misteri della mia famiglia. La nonna era una donna d’affari, gestiva una cooperativa di taxi».
Come si chiama sua mamma?
«Alia. Ho avuto un sobbalzo nel 1984 quando vidi che era lo stesso nome della sorella del protagonista di Dune di David Lynch...».
...poi interpretato nel remake da Timothée Chalamet, l’attore più importante della sua generazione, che lei ha lanciato in «Chiamami col tuo nome». Come si è accorto di lui?
«Il film ebbe una genesi complessa. Io dovevo esserne solo il produttore. Incontrai Timothée grazie al suo agente quando aveva diciassette anni, in un ristorante di New York, e mi parve la quintessenza del ragazzo di New York: veloce, smagato, curioso, ambizioso. Ma il film non si riusciva a fare, il regista italiano che avevamo individuato si chiamò fuori, e alla fine la regia dovetti farla io. Tornai da Timothée dopo due anni, era ancora perfetto per la parte di Elio. E nei primi giorni di lavorazione accadde una cosa strana».
Quale?
«Timothée stava girando la scena in cui il protagonista allo specchio si rade i pochi peli che ha. E aveva un’espressione così perfetta, precisa, niente recitazione tutta essenza, che gli dissi: tu diventerai una star, tra un anno, massimo un anno e mezzo, viaggerai in aereo privato».
Lei è siciliano. La Sicilia è certo terra più letteraria e cinematografica della campagna cremasca. Perché allora girare un film nella campagna cremasca?
«Io sono mezzo siciliano e mezzo africano, ma amo il Nord. È qualcosa di inconscio: devo aver vissuto al Nord vite passate. Amo la sua luce, la profondità del paesaggio lombardo. Ho abitato a Crema, ora vivo in campagna nel basso Piemonte. Non avrei mai ambientato “Chiamami col tuo nome” al mare, sarebbe stato triviale. E poi avevo già girato “Io sono l’amore” e “A bigger splash”, in cui c’era gente ricca, annoiata, indolente, che stava al mare. Avevo in mente il cielo, la campagna, la pianura, l’orizzonte. Il grande fiume, la grande terra. Il paesaggio di Bernardo Bertolucci e di un altro regista che amo molto, Eric Rohmer».
Lei ha girato anche un remake di quello che è forse il vero capolavoro di Dario Argento, Suspiria.
«Suspiria è del 1977, ma le tensioni di quell’anno cruciale sono assenti dal film. Tutto accade dentro l’Accademia di danza. Io ho voluto trasportare la stessa storia nella Berlino del Muro, un clima alla Fassbinder di “Germania in autunno”. Lasciando che le tensioni entrassero nel covo delle streghe. Dove si combatte una lotta per il potere tra le generazioni, quella postnazista e quella che aveva attraversato la dittatura».
Qualcosa del genere accade, in un contesto del tutto diverso, nel suo nuovo film, «After the Hunt», dopo la caccia. Ambientato in un campus americano, Yale.
«A dire il vero, l’abbiamo girato tutto in teatro di posa a Londra. Poi abbiamo “aggiunto” sopra le immagini di Yale”.
Ma Yale lo sa?
«No. Amazon, che finanzia il film, ha valutato che la legge lo consentisse. Nessun personaggio del film però nomina mai la parola Yale».
Ci sono due professori, Alma, interpretata da una splendida Julia Roberts, e Hank. Sono amici, forse latentemente innamorati, ma rivali per la cattedra di filosofia.
«Alma tiene un corso su Foucault».
E ci sono i loro giovani studenti, in particolare Maggie, una ragazza nera di una famiglia ricchissima che però vive in un caseggiato popolare con Alex, una ragazza in transizione.
«E c’è, anche qui, uno scontro di potere tra generazioni. Alex è attratta da Alma. Forse vorrebbe stare con lei; forse vorrebbe essere lei».
C’è una scena in cui Alma rimprovera i suoi allievi.
«I giovani tendono a pensare che riconoscere la differenza e darle un nome sia sbagliato. Che l’altro sia necessariamente un elemento positivo. In realtà, l’altro va riconosciuto nella sua alterità, come dice Slavoj Zizek parafrasando Martin Lutero. Non possiamo accettare nell’altro solo quello che ci consola, che consideriamo assimilabile. Finito il Novecento, superata l’idea postmoderna secondo cui la verità non esiste, sembra a volte di trovarsi davanti all’imposizione della verità soggettiva, spesso affidata ai social».
Oggi i campus americani, e la generazione degli studenti, sono sotto processo da parte di Trump. Non teme che il suo film sarà criticato?
«Certo che lo sarà. Ma a me piace fare cinema in modo da suscitare una reazione emotiva. E poi credo che la generazione dei ventenni sia meravigliosa. I miei set sono pieni di giovani».
Tra cui Teresa Cherubini, la figlia di Jovanotti.
«È bravissima, anche come disegnatrice e fumettista. E poi molti ragazzi, che sono brillanti registi in essere, italiani e americani, sono favolosi. Se però guardo ai giovani dal punto di vista dei social media, noto che tendono ad avere questa caratteristica: quando la loro soggettività viene messa in discussione, subiscono un feedback potentissimo, una reazione molto dura. E si fermano al loro dolore».
Non voglio raccontare il film, ma qualche elemento in più è necessario per capire. Alex accusa Hank di averla molestata, forse violentata. Hank nega. E Alma non sa a chi credere. Anche perché Maggie ha scoperto per caso la storia di Alma, che da ragazza ha accusato ingiustamente un uomo di averle fatto violenza...
«Ci sono due gruppi di personaggi, di età diversa, ma entrambi immersi in una dimensione narcisistica, e quindi destinati a scontrarsi. E quando il dolore individuale diventa misura del mondo, questo è il massimo del narcisismo. E dell’infantilismo, che è un po’ il tratto del nostro tempo».
Ma Hank è colpevole o innocente? Questo il film non lo dice.
«Ma c’è una scena da cui si intuisce chi è Hank. Quella girata nell’appartamentino di Alma, così diverso dalla casa elegante in cui vive: dopo uno scontro violento lui esce e il film si ferma a mostrare un tavolo, delle chiavi, le mosche, una natura morta...».
Com’è lavorare con Julia Roberts?
«Straordinario. Ci siamo incontrati in un party a Los Angeles, e siamo diventati subito amici intimi. È una star famosa in tutto il mondo, ed è nel contempo una persona dall’umanità profonda, di una leggerezza e di una perspicacia pazzesca, animata da un grande amore per l’arte».
Come spiega il fenomeno Trump?
«Al di là della natura virulenta della comunicazione dei populisti con tendenza autocratica, direi con gli errori dei democratici. Già nel 2016 lo dicevo ai miei amici liberal, colti, cosmopoliti: Trump vincerà. Loro sorridevano: impossibile. E Hillary definiva i suoi elettori “deplorevoli”. Ma Trump è stato visto dai blue collars, dalla classe operaia, come l’ultima occasione per essere visti, e ascoltati. Quando viene messo in atto questo disprezzo da parte delle élite, il popolo guarda alla sirena della risposta che gli arriva da coloro che sembrano riconoscergli la sua esistenza. Il paradosso è che Trump è un miliardario egotico e la sua classe dirigente è composta da élite di destra e dai padroni della Silicon Valley, che prima andavano a braccetto con i democratici. Per me, che sono di estrema sinistra, ci vorrebbe una ricodificazione della sinistra-sinistra per opporsi a tutto questo».
In che senso sinistra-sinistra?
«Io simpatizzo per una sinistra alla Ken Loach, che non si compromette con le ragioni economiche delle corporations».
Amazon è una corporation.
«Certo. Ma nel fare i miei film mi lasciano totale libertà produttiva e creativa. Ciò non toglie che credo nella supremazia dello Stato sui poteri economici e della democrazia rappresentativa sul potere delle lobby economiche».
Torniamo alla sua infanzia africana. Cosa ricorda dell’Etiopia dei primi anni 70?
«Gli animali, ad esempio le tartarughe. E i viaggi in auto, i dirupi, la vertigine, l’ebbrezza. Spazi immensi. C’era ancora l’imperatore, mi piacerebbe anche fare un film su Hailé Selassié. Poi ci fu il colpo di Stato di Menghistu. Noi stranieri eravamo personae non gratae. Ci cacciarono. Non ci sono mai tornato».
E com’era la Palermo di fine anni 70, inizio 80?
«Abitavamo in via Notarbartolo, accanto a Falcone. Infuriava la guerra di mafia, a volte c’erano tre morti al giorno. Non solo mafiosi: politici, magistrati, poliziotti, generali. Ricordo la notizia della morte di Piersanti Mattarella, di Rocco Chinnici, di Ninni Cassarà, di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Una città in stato d’assedio».
Una persona importante della sua vita è stata Laura Betti. Com’è l’ha conosciuta?
«Studiavo a Roma: storia del cinema, a Lettere, con il professor Spagnoletti. Un giorno Laura venne a lezione. Ho sempre avuto un po’ la faccia di tolla, così l’ho avvicinata, si è accesa la scintilla, e sono andato a lavorare per lei».
Cosa faceva?
«Cucinavo. Ho sempre amato cucinare. E Laura Betti adorava mangiare. Mi faceva sempre preparare porzioni tre volte più grandi del necessario, con il retropensiero di mangiarsele lei. Per non cadere in tentazione faceva chiudere a chiave la porta della cucina, che però si apriva sotto in un passaggio tipo quello per i cani. Così lei passava di lì. A volte al mattino la trovavamo incastrata e dovevamo liberarla».
Chi cenava a casa di Laura Betti?
«Tutti. Nel suo attico in via Monserrato ho visto sfilare la sinistra italiana, in particolare nel passaggio dal Pci al Pds al Pd. E poi Bernardo Bertolucci, Enzo Siciliano, Ettore Scola, Francesca Archibugi. Ovviamente io per loro ero invisibile. Un palermitano allampanato che cucinava un’impressionante quantità di polpette».
Come fu la sua prima volta?
«Da ritardatario: avevo ventun anni e mezzo. Era estate, a Palermo. Fu un amore molto goffo e molto sentimentale. Un’infatuazione fortissima, durata mesi, e bruciatasi a scopo raggiunto, dopo l’incontro sessuale con il corpo dell’altro».
Ha mai amato donne?
«Ho amato molte donne, ma mai fisicamente».
Ha avuto tante storie?
«Al contrario. Ho avuto pochissimi amori, lunghi e duraturi. Klaus Mann, il figlio di Thomas, scrive che si ama sempre lo stesso volto, e lo si cerca per tutta la vita».
Lei ha detto che Fellini è il maggiore dei minori. Come mai non le piace?
«Punto di vista personale: lo trovo noioso, prevedibile, tranne in alcuni capolavori, come La strada e Giulietta degli Spiriti, tutti rischiarati dalla presenza di Giulietta Masina: la grande artista ahimè negletta della coppia. Che illumina anche un film tardo come Ginger e Fred».
Non le piace 8 e mezzo?
«Poteva durare un’ora in meno».
La criticheranno per questo.
«Lo so. E non voglio mancare di rispetto a un regista come Fellini, che ha fatto la storia del cinema. Ma un artista non dovrebbe diventare un canone. Bergman disse: “Se dovessi fare un film alla Bergman, sarei finito”. Ecco, Fellini ha fatto film felliniani».
Lei prima ha accennato a vite precedenti. Crede in Dio?
«No. Non sono religioso, non ho la disciplina necessaria».
Però crede che viviamo diverse vite.
«Qualcosa di noi resta. La nostra essenza. Quello che abbiamo fatto. Il nostro vissuto lascia un residuo che non si può annullare. I grandi artisti, ad esempio, restano nell’aria, come una vibrazione. Oppure trasmigrano, in qualche forma. Kurt Cobain è morto da più di vent’anni, ma ho conosciuto giovani che lo amano e per i quali è vivo».
Quindi lei non crede nell’aldilà?
«Non in quanto regno dei morti. Anche se amo il soprannaturale al cinema».
Quali sono i cinque film della sua vita?
«Aurora di Murnau, Jeanne Dielman di Chantal Akerman...».
...Si fermi, se no io dico Giovannona Coscialunga e l’Esorciccio...
«E io dico L’Impero dei sensi di Oshima, Viaggio in Italia di Rossellini e La luna di Bertolucci».