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 2025  settembre 25 Giovedì calendario

«Il salario dignitoso è di 11 euro l’ora»

Un salario dignitoso non può rappresentare un privilegio per pochi, deve essere un diritto per tutti. A chiederlo, per il secondo anno consecutivo con una campagna mondiale, è la Clean Clothes Campaign, la rete globale composta da 220 organizzazioni attive in più di 45 paesi che da decenni denuncia le violazioni dei diritti nei paesi che producono tessuti e abiti. Rivendicazioni accompagnate da una roadmap con proposte concrete e realizzabili. Ad una condizione: che cittadini e aziende e istituzioni collaborino. Il settore tessile, è il punto di partenza, per dimensioni e rilevanza, ha il potenziale per innescare un cambiamento sistemico. Da estendere a tutti i settori produttivi.
La scelta della data non è casuale. Il 25 settembre del 2013, in Bangladesh qualche mese dopo la tragedia nella fabbrica di Rana Plaza costata la vita a 1134 persone, le lavoratrici della moda hanno incrociato le braccia chiedendo di non lavorare più per pochi spiccioli. A distanza di dodici anni quella giusta rivendicazione è rimasta un miraggio, e non solo in Asia.
Ma cos’è e come si calcola un salario dignitoso? Secondo la Campagna Abiti puliti è quella retribuzione, diversa ovviamente da Paese a Paese, che consente di vivere in maniera adeguata. In Italia, si parla di duemila euro netti al mese, cioè circa 11,50 euro netti l’ora per un lavoro a tempo pieno. È una cifra che continua a salire a causa della perdita di potere d’acquisto. Eppure, la realtà dei fatti è che il lavoro non è più uno scudo contro la povertà. Lo confermano i dati Istat: il 23,1% della popolazione è a rischio povertà o esclusione sociale. I working poor, cioè coloro che pur lavorando sono a rischio povertà, sono il 10,3%, con un’incidenza che sale al 22,6% per gli stranieri e al 26,6% per le donne, «Questi numeri ci ricordano che parlare di moda pulita e giusta non significa solo affrontare lo sfruttamento lungo le catene globali di fornitura, ma anche guardare dentro i nostri confini – spiega Deborah Lucchetti, coordinatrice della campagna italiana, coordinata da Fair e alla quale aderiscono altre otto organizzazioni (da Focsiv al Movimento consumatori) –. In Italia migliaia di persone, soprattutto donne e migranti, continuano a cucire, tagliare, stirare e confezionare capi senza poter contare su un reddito dignitoso». Basti guardare alle numerose inchieste che negli ultimi anni hanno coinvolto le griffe accusate di subappaltare la produzione di capi di lusso ad imprese straniere che sfruttano la manodopera. Il settore si muove secondo una logica capitalista, di massimizzazione del profitto. «La compressione dei salari, il ricorso a subappalti opachi e la precarizzazione dei rapporti di lavoro sono strumenti funzionali» alla riduzione dei costi di produzione aggiunge Lucchetti. C’è poi la questione della mancanza di controlli, affidati ad audit privati e di fatto pilotati dalle stesse aziende. «Il caso della filiera Montblanc è emblematico – racconta Lucchetti -. I lavoratori pakistani producevano borse di lusso in pelle in condizioni di sfruttamento estremo, fino a 70 ore settimanali per circa 3 euro l’ora, senza riposi né tutele sociali. Solo grazie alla mobilitazione sindacale di Sudd Cobas erano riusciti a ottenere contratti regolari, ma nel giro di poche settimane Pelletteria Richemont, filiale italiana del gruppo, ha interrotto il rapporto con la fabbrica, lasciando i lavoratori senza occupazione». Ad alimentare questo sistema di sfruttamento è sicuramente il fast-fashion. L’obiettivo del prezzo basso e della consegna immediata si traduce infatti in un abbattimento dei costi che grava sulle persone, non solo sulle materie prime. Il quadro è aggravato dall’ultimo miglio della logistica, spesso invisibile agli occhi dei consumatori ma centrale per l’economia delle piattaforme online. «Il fast fashion non è soltanto un problema di consumo compulsivo o di impatti ambientali. È un meccanismo che si regge sulla svalutazione sistematica del lavoro umano» aggiunge la responsabile della Campagna Abiti puliti. Le aziende hanno una responsabilità primaria: non possono più limitarsi a iniziative di facciata o a politiche di marketing verde. Devono tutelare i lavoratori e ripensare il modello di business, rallentando i ritmi produttivi e redistribuendo in modo equo i profitti. Sul fronte dei cittadini è necessario un cambio culturale all’insegna del comprare meno e meglio.