Il Messaggero, 25 settembre 2025
La violenza dei soldi. Una doppia trappola
La violenza domestica non è fatta solo di urla, minacce o lividi. C’è una forma più silenziosa, ma altrettanto devastante: la violenza economica. È il divieto di lavorare, il controllo dei soldi, l’obbligo di chiedere al partner anche pochi euro per la spesa. Una forma di potere che logora la libertà giorno dopo giorno. Dopo lo scandalo dei gruppi online Phica.eu e “Mia moglie”, dove migliaia di uomini hanno condiviso immagini intime di donne senza il loro consenso, l’invito a “denunciare” è diventato un mantra. Ma per molte non è un’opzione reale: senza un reddito, una casa, un’alternativa concreta per i figli, denunciare equivale a lanciarsi nel vuoto. La ministra per la Famiglia e le Pari Opportunità, Eugenia Maria Roccella, rivendica le misure messe in campo dal governo: «La violenza economica è una delle forme di condizionamento più subdole ma anche più impattanti: può precedere quella fisica, può impedire la denuncia, può ritardare l’uscita dalle situazioni tossiche. Per questo stiamo lavorando su più fronti: pari opportunità, sostegni economici nell’emergenza e percorsi di ripartenza».
Il primo passo è stato rendere strutturale il Reddito di libertà, un contributo mensile per le donne seguite dai centri antiviolenza (11 milioni di euro nel 2025), sottraendolo all’incertezza dei rinnovi. Accanto a questo, 18 milioni per progetti di empowerment, 3 milioni l’anno per formazione e inserimento lavorativo e il progetto Microcredito di libertà con l’Abi per sostenere nuove imprese femminili. «L’indipendenza economica è la vera prevenzione sottolinea Roccella Solo così sarà possibile denunciare».
LA FOTOGRAFIA
Nel 2024 sei donne su dieci ospitate nelle case famiglia non avevano alcuna autonomia finanziaria; tra disoccupate, casalinghe e studentesse la percentuale sfiora il 90%. Una su tre, quando si rivolge a un centro antiviolenza, dichiara “reddito zero”. Non stupisce allora che nel 2023 oltre l’80% delle 51.713 chiamate al 1522 non sia sfociato in una denuncia. E la tendenza non si è fermata: nei primi nove mesi del 2024 le richieste d’aiuto sono state circa 48mila, il 57% in più rispetto all’anno precedente; tra ottobre e dicembre 2024 poi le chiamate valide sono state 16.710, di cui quasi mille per violenza economica.
Maria Rosaria Romano, direttrice della II Divisione della Polizia Postale spiega: «Non c’è solo paura tra le ragioni che impediscono le segnalazioni, ma anche vergogna e timore di esporre la propria vita privata. Dopotutto autonomia e fiducia vengono distrutte. Senza un sostegno reale, la denuncia resta un passo troppo rischioso». Gli strumenti giuridici non mancano: dall’ammonimento del questore un richiamo formale che può scattare anche in assenza di querela al codice rosso, che accelera l’iter giudiziario nei casi di violenza domestica e stalking. «Sono misure efficaci aggiunge Romano ma da sole non bastano. La prevenzione deve cominciare dai primi segnali, anche online. Per questo è fondamentale creare reti di supporto e sportelli accessibili per non far sentire sola nessuna donna, come i canali istituzionali della Polizia di Stato e della Polizia Postale».
Il sommerso quindi resta enorme. E il digitale ha moltiplicato i rischi. Nel 2024 la PolPost ha registrato 5.078 denunce per cyberstalking, 1.146 per revenge porn, 2.837 per molestie online e 1.083 per sextortion. «Il revenge porn e la sextortion uniscono violenza sessuale e ricatto economico» osserva Marina Contino, dirigente del Servizio Centrale Anticrimine. «Molte temono che la diffusione di immagini intime distrugga non solo la loro vita privata ma anche quella professionale. È per questo che la segnalazione non arriva, o arriva troppo tardi». Contino ricorda anche la formazione interna: «Da tre anni organizziamo corsi specialistici sulla violenza di genere: oltre 350 operatori formati con psicologi e docenti. Così possiamo offrire ascolto e accoglienza alle vittime: chi ci cerca deve sentirsi creduta». E sul piano legale la strada è ancora in salita. «La violenza economica è una delle forme più diffuse di controllo e limitazione della libertà femminile, riconosciuta dalla Convenzione di Istanbul ratificata dall’Italia nel 2013 come parte integrante della violenza domestica, insieme a quella fisica, psicologica e sessuale. Eppure nel nostro ordinamento non ha ancora una definizione autonoma» spiega Teresa Manente, avvocata e responsabile dell’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna. «Oggi viene ricondotta di volta in volta a reati diversi: maltrattamenti in famiglia, violenza privata, estorsione o violazione degli obblighi di mantenimento. È sottovalutata perché non lascia segni visibili ed è spesso confusa con “semplici” conflitti familiari».
Gli strumenti ci sono, almeno sulla carta: la querela consente di attivare procedimenti penali e il giudice civile, nei casi di separazione e affidamento, può disporre ordini di protezione e regolamentare l’assegnazione della casa e del mantenimento. «Ma i limiti sono enormi» avverte Manente. «Il primo è culturale: spesso la dipendenza economica da lui non viene considerata violenza, eppure è la forma più radicata di subordinazione femminile, perché limita la libertà di autodeterminazione». Inoltre la paura di ritorsioni, i tempi lunghi della giustizia e l’assenza di sostegni immediati spingono molte a rinunciare. «Non è un caso se senza un centro antiviolenza accanto tante desistono nel portare avanti la denuncia» aggiunge l’avvocata. I casi raccolti da Differenza Donna lo confermano: stipendi consegnati integralmente al partner, conti correnti inaccessibili, licenziamenti imposti con la scusa che “il loro salario serve solo a pagare la baby sitter”, fino ai ricatti sui figli: «Se ti separi, non ti do più nulla». «La violenza economica conclude resta la più invisibile e difficile da combattere finché non verrà riconosciuta come forma di discriminazione femminile e di controllo maschile».
IL RISVOLTO
Di fronte alle difficoltà legali, il supporto dei centri antiviolenza diventa essenziale. «Non è dipendenza, è potere» interviene Luisanna Porcu, consigliera nazionale di Di.Re e psicoterapeuta. «Nei nostri punti di accoglienza seguiamo 24mila donne ogni anno, e tra loro 17-18mila subiscono violenza economica. È la punta di un iceberg. In queste condizioni, denunciare significa spesso condannarsi alla povertà. Per questo i centri lavorano su percorsi di autonomia: sportelli lavoro, borse di studio, corsi di formazione, accordi con aziende. Noi cerchiamo di donare reti concrete di sostegno per essere libere».
La politica deve intervenire a monte. La senatrice Valeria Valente, ex presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, lega il fenomeno al sistema Paese: «La violenza economica è la manifestazione più diretta di una società patriarcale che ancora scarica sulle donne il lavoro domestico e di cura. Senza asili nido e welfare, il rischio di povertà dopo la separazione è altissimo. Servono investimenti strutturali: occupazione femminile, parità salariale, servizi per l’infanzia, etc. Il Reddito di libertà è di certo uno strumento utile di emancipazione, ma va potenziato come una vera retribuzione in attesa di un lavoro». Il nodo perciò resta culturale: «Il sistema giudiziario spesso non ci crede e gli stereotipi e i pregiudizi ci penalizzano. Senza garanzie economiche denunciare è un salto nel vuoto». La senatrice mette anche in guardia sulla nuova frontiera della violenza, quella digitale: «I casi dei gruppi Phica.eu e “Mia moglie” dimostrano come il web amplifichi e intrecci la violenza sessuale con quella economica. Le istituzioni devono intervenire anche sul piano normativo, regolando i social, introducendo l’obbligo di identità digitale, eliminando l’anonimato e rafforzando le responsabilità delle piattaforme».