repubblica.it, 25 settembre 2025
Non più in via di sviluppo, non ancora sviluppata: la Cina vuole restare una potenza “di mezzo”
Può una superpotenza come la Cina, capace di rivaleggiare con gli Stati Uniti alla frontiera tecnologica, essere ancora considerata un Paese “in via di sviluppo”? La questione non è solo lessicale, ma ha significative implicazioni economiche e politiche. E fino a oggi Pechino, nonostante le pressioni del resto del mondo, è rimasta ostinatamente ancorata alla propria risposta: sì, può. Proprio in queste ore però il premier Li Qiang, in visita a New York per l’assemblea generale dell’Onu, ha dato un primo segnale di ripensamento dell’immagine che la Cina vuole proiettare, annunciando che rinuncerà al trattamento di vantaggio che all’Organizzazione mondiale del commercio spetta ai Paesi emergenti.
Tra Sud e Nord
Non è l’ammissione di aver cambiato club, di essere passati tra gli emersi. Il premier Li ha motivato la scelta come quella di un “Paese in via di sviluppo grande e responsabile”, limitandosi a precisare la vecchia tassonomia e ripetendo le recenti parole di Xi Jinping secondo cui la Cina “resta e resterò sempre un Paese in via di sviluppo”. Ma è un passo dopo anni di piedi puntati, in cui Pechino ha difeso il proprio status e la propria narrazione – interna ed esterna, radicata nell’ideologia comunista, antiamericana e anticapitalista – di potenza leader del fu Terzo mondo, oggi chiamato Sud globale. E rivendicando quindi le relative concessioni nell’applicazione di tutti i grandi trattati internazionali, da una maggiore flessibilità nelle regole di apertura del mercato a obiettivi più morbidi nella riduzione delle emissioni, passando dal diritto a ricevere supporto dalle grandi organizzazioni multilaterali di sviluppo.
Appesi ai numeri
Questo trattamento in realtà è ancora giustificato dai numeri del prodotto interno lordo, in un Paese di un miliardo e 400 milioni di cittadini che ha punte avanzatissime ma anche ampie sacche di povertà. Tra gli alti di Pechino, quasi 30mila dollari, e i bassi del Gansu, 6.800, la media nazionale è di 13.300 dollari, lontanissima dagli Stati Uniti (85.500) e ancora nella fascia dei Paesi a medio reddito, che secondo la Banca mondiale arrivano fino a 14mila dollari. Agli attuali ritmi di crescita l’ingresso tra i Paesi ad alto reddito dovrebbe avvenire a breve, il prossimo anno, attivando una procedura che nel 2029 la dovrebbe far uscire dalla lista degli emergenti compilata dall’Ocse. Già da tempo però la classificazione della Cina come Paese in via di sviluppo stride con la sua influenza geopolitica, la mole della seconda economia globale, il suo strapotere industrial-commerciale. Mentre i relativi privilegi sono oggetto di critica da parte del mondo sviluppato, a cominciare dal rivale americano, che in varie sedi fa pressione perché lo status della Repubblica popolare venga aggiornato.
Superpotenza in via di sviluppo
Negli ultimi anni questa natura sui generis della Cina è stata uno dei maggiori ostacoli a tutte le discussioni su norme e obiettivi internazionali e sulla (necessaria) riforma delle organizzazioni multilaterali, dove (a ragione) Pechino rivendica una maggiore voce in capitolo. La novità più recente, emersa per esempio all’ultima Conferenza sul clima di Baku, è che anche molti dei Paesi più poveri, in particolare africani, ora chiedono che Cina (e India) non vengano più considerate in via di sviluppo e che anzi contribuiscano ai loro sforzi tanto quanto quelli sviluppati. L’annuncio di Pechino sulla rinuncia a un trattamento di favore negli accordi commerciali, accolto con grandi plausi dalla presidentessa del Wto, va letta in questo contesto: un tentativo di mostrarsi dialogante con i Paesi del Nord globale, disinteressata a quelli del Sud, a tutti desiderosa di difendere l’ordine globale che Trump piccona. Tutto questo però ritagliandosi su misura un’identità di mezzo e su misura: superpotenza in via di sviluppo. Difficile che funzioni.