repubblica.it, 25 settembre 2025
Stipendi e inflazione, lavoratori più poveri del 5,8% sul 2021. Ma le aziende potevano pagare di più
Gli stipendi degli italiani non hanno tenuto il passo del costo della vita, negli anni della fiammata inflattiva e pure nel lungo periodo. Ma, attenzione, le aziende avrebbero potuto fare di più per sostenere le famiglie, mettendo più soldi nelle loro tasche. E gli azionisti avrebbero avuto poco da dire, perché di spazio per farlo in larga parte ce n’era.
Le buste paga tricolori escono con le ossa rotte da qualsiasi tipo di confronto internazionale e temporale. L’Ilo segnalava la scorsa primavera come – tra 2008 e 2024 – siano andati perduti 8,7 punti di potere d’acquisto. Ancora poche settimane fa, l’Ocse certificava come i salari reali fossero più bassi del 7,5% nel primo trimestre di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2021.
Dietro la stagnazione ormai pluridecennale delle nostre buste paga si evoca sempre la mancanza di produttività. L’analisi dell’Area Studi di Mediobanca “Dati Cumulativi”, su 1905 società italiane, getta una luce ulteriore sul fenomeno. Nel decennio 2015-2024, si legge, “la produttività nominale del lavoro ha registrato una crescita superiore a quella del costo del lavoro in molti comparti, con l’eccezione del terziario dove si è verificata una dinamica inversa”.
L’inflazione cumulata nel periodo ha sfiorato i venti punti (19,7%) e “ha eroso il potere d’acquisto dei lavoratori delle 1905 imprese, con una perdita media del 2,8% sul 2015 che sale al 5,8% se si prende come riferimento il 2021, anno di uscita dalla pandemia”.
Si poteva evitare? “L’invito che mi sento di fare è che le parti datoriali private facciano anch’esse la loro parte e riconoscano anche loro ai lavoratori aumenti stipendiali”, ha detto il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, parlando al Senato del Dpfp.
Due conti sul punto arrivano da Piazzetta Cuccia. Nel quadriennio 2021-2024 “molte imprese avrebbero potuto redistribuire una parte del valore generato – spiega Mediobanca – sostenendo l’incremento del costo del lavoro e, di conseguenza, il potere d’acquisto delle retribuzioni senza compromettere la remunerazione degli stakeholder e dello stesso azionista”.
L’Area studi stima che in queste imprese “un aumento di circa 4.000 euro pro-capite avrebbe riportato il costo del lavoro reale al livello pre-inflazione. Tale aggiustamento avrebbe assorbito il 38% del valore generato”. Nel dettaglio le imprese pubbliche, “pur necessitando di un maggiore intervento sul costo del lavoro (oltre 7.000 euro), avrebbero sacrificato solo il 22% del valore prodotto. Al contrario, le imprese private lo avrebbero visto ridursi del 65 per cento”.
Un decennio di volatilità
Oltre alla questione salariale, lo studio Mediobanca sulle grandi e medie imprese mettono a fuoco un decennio di grande volatilità concluso comunque con una crescita cumulata dei ricavi del 37,6%, nonostante quattro esercizi negativi con il tracollo dell’anno del Covid (-10,8% nel 2020) con due forti rimbalzi successivi.
In particolare evidenza il made in Italy (comparto che comprende moda, arredamento, cibo e vino, ma anche metallo, macchinari, yacht e settore medicale) con fatturato in crescita del 52,6%, grazie al traino dell’estero con un +59,6%. Performance migliori di quelle della manifattura (+41,5% nel giro d’affari). Anche il 2024 conferma il trend positivo per il made in Italy, con un incremento dei ricavi pari al 2,5%, dell’export al 3,3% e del fatturato domestico all’1,5%. Al contrario, la manifattura ha subito una flessione nel 2024: -0,7% sul fatturato, -0,3% sull’export e -1,1% sul mercato interno.
Bene la redditività, dazi gestibili
Rilevante per misurare la resilienza delle imprese è l’andamento della marginalità: nel quinquennio pre-covid il risultato operativo (Ebit margin) era attorno al 6%. Nel 2020, in corrispondenza del picco pandemico, si è registrata una flessione al 4%. Negli ultimi anni segnata “da crescenti complessità geopolitiche, la redditività si è mantenuta su livelli storicamente elevati attorno al 6,5%, a confronto con una media del 5,5% dei precedenti otto anni”.
Detto del positivo andamento occupazionale del decennio (+9,5% nel 2015-2024), le imprese italiane si presentano alla prova dei dazi di Trump con una “base rassicurante. L’imposizione doganale del 15% (rispetto al 3% precedente) non dovrebbe gravare solo sui produttori, “ma si dovrebbe distribuire tra produttore-esportatore, importatore, distributore statunitense e consumatore finale”. L’impatto che stima Mediobanca è “una riduzione marginale dell’Ebit margin, stimata in 0,2 punti percentuali (6,2% rispetto al 6,4% in assenza di dazi)”.