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 2025  settembre 25 Giovedì calendario

La partita non è persa

I dati recenti sull’andamento della natalità nei primi mesi del 2025 e sulle dinamiche della popolazione italiana al 2040 e oltre, alimentano l’allarme intorno allo tsunami demografico che ci attende. Si stima che quest’anno non nasceranno più di 350.000 bambini rispetto ai 550.000 di venti anni fa. Gli over 65, oggi pari al 24% di una popolazione che conta 59 milioni, saranno il 32% entro il 2040. Giusto per dare un’idea del senso dei numeri, se per i prossimi anni nascessero i nati del 2025 (fermando quindi il calo) e se campassero tutti 100 anni, l’Italia si troverebbe, in assenza di immigrazione, con una popolazione di 35 milioni di persone.
L’attesa dell’onda anomala è già realtà nelle dinamiche degli iscritti alla scuola e si stima (ma è una certezza) che nel 2040 le matricole dell’università potranno ridursi di quasi il 40% dai valori attuali.
Le reazioni a questi dati sono prevalentemente orientate al pessimismo. E ciò snocciolando le conseguenze in termini di: 1) insostenibilità degli equilibri previdenziali; 2) riduzione della popolazione attiva e deficit di lavoratori; 3) crescita della domanda sanitaria, delle cronicità e delle non autosufficienze; 4) declino delle economie familiari derivanti dal prevalere dei gruppi mononucleari; 5) difficoltà di gestire gli ingenti flussi migratori necessari; 6) obsolescenza delle competenze e necessità di una formazione continua per tutti.
Insomma, se si mettono tutte queste cose insieme, c’è proprio da chiuder bottega e attendere sulla riva del fiume. Che la situazione sia inedita, non vi è alcun dubbio. Che la partita sia irrimediabilmente persa, cioè senza possibilità di reagire e senza liquidare la questione con un ingenuo ottimismo di maniera, ci permettiamo di dissentire. A nostro parere, proprio per questo «stress test», possiamo mettere in campo proposte innovative che, grazie alla gravità della situazione, hanno maggiori possibilità di essere accolte dalla società. Sappiamo tutti, infatti, che le resistenze al cambiamento sono capaci di rallentare i processi innovativi e le nuove idee. La paura tende a ridurre tali resistenze. Ed è proprio questo il caso: la necessità che genera il coraggio che serve.
Partiamo, ad esempio, dal tema pensioni. L’intervento del presidente Fava al meeting di Rimini e la discussione politica in corso, evidenziano la consapevolezza che impone serietà delle proposte e moderazione del dibattito, da due punti di vista almeno: l’affermazione della logica contributiva che correla la pensione ai contributi versati e non ad altro (che andrebbe sulla fiscalità generale in modo chiaro) e la possibilità per chi è in buona salute di continuare a lavorare a condizioni di incentivo anche dopo l’età della vecchiaia. Ci permettiamo di aggiungere l’idea di un pensionamento graduale (gradual retirement) su base volontaria e che determina un equilibrio win win per gli interessati e i conti pubblici, garantendo una riduzione graduale dell’orario e dell’impegno a fronte di una diminuzione conseguente dello stipendio e del ricevimento pro quota della pensione. In altri termini, liberare le scelte piuttosto che obbligare.
Sul deficit di personale nelle imprese e nella Pubblica amministrazione è evidente che dobbiamo accelerare nella direzione dell’automazione e della digitalizzazione. AI e umanoidi possono permettere di realizzare lo stesso output con una forza lavoro più qualificata ma meno numerosa. L’esempio della mancanza di conducenti del trasporto pubblico è un sintomo inequivocabile dell’esigenza di una accelerazione delle tecnologie per la guida assistita e autonoma dei mezzi. Esoscheletri, realtà virtuale e droni saranno strumenti indispensabili per la nuova e ridotta forza lavoro. Serve poi il coraggio di spingere fino in fondo il pedale della digitalizzazione, soprattutto nel settore pubblico, evitando una situazione promiscua tra digitale e analogico che avrebbe come unico effetto quello di creare un collo di bottiglia.
Per la sanità dobbiamo avere la consapevolezza che si sta esaurendo il tempo in cui potevamo permetterci di gestire solo parzialmente la domanda di assistenza socio-sanitaria degli anziani, confidando in volontari e figli. Siamo gli ultimi che vivremo un’assistenza sostanzialmente familiare.
Dobbiamo, inoltre, essere consapevoli che la domanda di salute cresce esponenzialmente con l’età, in particolare dopo i 65 anni. Per questo, a fronte del trend demografico, occorre monitorare costantemente gli output del sistema, verificare le reali condizioni di indigenza dei totalmente esenti (si veda l’art. 32 della Costituzione) e ridurre le inappropriatezze che spesso sono insite anche negli attuali contratti assicurativi, concepiti più come benvenuti benefit pagati dal datore di lavoro (per check up e visite varie) che non a copertura, ad esempio, dei rischi propri assicurabili come un’operazione (se capita certamente non la si è voluta). E sulla digitalizzazione, il fatto che un cittadino italiano sia un «paziente ignoto» al di fuori della sua regione, non si può più accettare. Sarebbe come dire che il data base di Ryanair è più ricco di quello dello Stato italiano.
Più difficile incidere sulle dinamiche familiari e migratorie. E, tuttavia, anche qui si possono pensare proposte che in condizioni normali non avremmo mai fatto. Iniziative formative nei Paesi di provenienza (in forma massiva rispetto alle lodevoli eccezioni esistenti) e programmi di integrazione rigorosi vanno in questa direzione. Ma ci permettiamo di riprendere la proposta, presentata a Cernobbio, di inserire un‘agenda di Governo per il richiamo di studenti e docenti universitari internazionali, che permetterebbe una crescita delle nostre università (anche nei ranking), innescando un ciclo virtuoso di attrattività di immigrazione qualificata. L’immigrazione è una prova della capacità della democrazia di salvaguardare contemporaneamente diritti e regole.
Insomma, non è il caso di dire che non tutto il male vien per nuocere perché insieme a tanti anziani e centenari avremmo voluto anche tanti bambini, ma è con la realtà dei numeri che abbiamo a che fare. Da questo punto di vista l’Italia, che soffre in Europa da più tempo il problema dell’alto debito pubblico, sembra più attrezzata e consapevole di altri grandi Paesi, come la Francia e la Germania. Non illudiamoci però, siamo solo all’inizio. Ma se provassimo a seguire un percorso innovativo come quello che stiamo suggerendo, senza dimenticare ovviamente gli aspetti antropologici di queste trasformazioni, non diventeremmo euforici ma certamente non cadremo in depressione, che poi per un Paese è l’anticamera della recessione.