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 2025  settembre 25 Giovedì calendario

Disastrose giravolte

Dal rude monito a Zelensky, «negozia con la Russia e cedi, prendi atto che non hai le carte, non dovevi nemmeno entrare in guerra col Cremlino» (e pazienza se ti invadono), al sempre ammirato Vladimir Putin che diventa improvvisamente «tigre di carta», mentre l’Ucraina non solo fa bene a combattere, ma può riconquistare tutti i territori occupati da Mosca «e chissà, magari anche qualcosa di più». Donald Trump ci ha abituato, fin dalla discesa in politica, dieci anni fa, alla sua imprevedibilità. Arma utile nel suo primo mandato, disastrosa ora.
A llora l’imprevedibilità gli servì per mascherare l’impreparazione nei rapporti internazionali, per tenere a bada gli avversari. Vecchie volpi come Xi Jinping e lo stesso Putin furono caute non riuscendo a interpretare, col loro vocabolario geopolitico, la logica delle mosse trumpiane e temendo, quindi, sue impennate magari stravaganti, ma pericolose.
Nel secondo mandato, però, abbiamo uno scenario capovolto: circondato da fedelissimi, compresi tecnocrati e ideologi decisi ad espandere al massimo (e anche oltre) i poteri presidenziali e a cambiare la cultura politica dell’America, Trump è intervenuto pesantemente in molti campi: dall’immigrazione alla Giustizia, al depotenziamento del Congresso, mentre l’onda dei dazi ha sconvolto il commercio mondiale e l’Europa ha pagato prezzi molto alti per sperare di poter contare ancora su qualche lembo di ombrello militare Usa.
Ma se negli atti concreti, sia pure con eccessi, forzature istituzionali e qualche dietrofront, si può individuare una direzione di marcia, nelle sue esternazioni il presidente sta mettendo in fila affermazioni non solo contraddittorie, ma anche assai dannose per gli interessi degli Stati Uniti e per la stessa immagine del leader.
Alcuni analisti parlano di evoluzione del narcisismo di Trump, talmente convinto di avere ormai un controllo totale del popolo Maga (e convinto dell’inconsistenza dell’opposizione) da potersi permettere di dire tutto e il contrario di tutto anche nell’arco di poche ore senza pagare pegno: martedì ha sferzato al mattino l’Onu («non risolve i problemi e ne crea di nuovi») dichiarandosi nel pomeriggio «al 100% con le Nazioni Unite, hanno un potenziale enorme».
Può darsi che a volte provocazioni e dietrofront di Trump siano anche un modo per tastare il terreno, per vedere fin dove può spingersi. Ma certe sortite, oltre che imprevedibili e bizzarre, sono molto dannose per l’America e per il suo presidente. Che oggi usa espressioni sprezzanti con Putin, ma poche settimane fa gli ha srotolato un tappeto rosso regalandogli legittimità e riabilitazione sulla scena internazionale. Disastroso per l’Occidente, ma anche per Trump. Che poi, raddoppiando i dazi nei confronti dell’alleato indiano mentre evita di farlo con l’avversario cinese, ha distrutto anni di sforzi diplomatici, anche della sua Amministrazione, per fare di Nuova Delhi il cardine di una strategia di contenimento della superpotenza asiatica.
Così c’è chi comincia a sospettare che, più che di eccessi da senso di onnipotenza, si tratti di un inizio di perdita di capacità cognitive. Inutile, velleitario fare illazioni. Ma se il presidente sbanda anche agli occhi della sua gente (e del suo team), l’attenzione è destinata a spostarsi sempre più sul dopo Trump. È anche per questo che le reazioni politiche all’assassinio di Charlie Kirk stanno avendo un peso così rilevante: si cerca di bollare l’intero fronte democratico come schiavo di forze radicali, ma vengono anche ridefiniti i rapporti interni tra i leader trumpiani spostando il baricentro verso il nazionalismo cristiano.
Nella bella intervista di ieri a Viviana Mazza, Steve Bannon annuncia rese dei conti: gli ideologi della destra radicale si prenderanno il Paese andando a cercare voti tra i 40 milioni di cristiani che oggi non vanno alle urne e mettendo fuori gioco il mondo tech della Silicon Valley che ha «sposato» Trump: «Girano intorno a lui per ottenere favori, ma sono tutti progressisti pagani, atei, demoniaci».
Bannon, ultrà dell’integralismo cristiano, va preso con le molle. Ma è lo stratega della vittoria di Trump nel 2016 e propone la stessa ricetta (recupero dei voti cristiani) con la quale nel 2004 Karl Rove mobilitò gli evangelici a favore di George Bush, facendogli vincere le elezioni. E oggi JD Vance e Marco Rubio, «papabili» per la Casa Bianca, abbracciano il nazionalismo cristiano.
Non lo scenario ideale per chi spera che l’America, consumata da opposti estremismi, arrivata sull’orlo del precipizio recuperi il dialogo, torni a cercare valori comuni.