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 2025  settembre 24 Mercoledì calendario

I vestiti, le medicine: che fine hanno fatto decine di oppositori in Venezuela?

In Venezuela decine di oppositori sono scomparsi nel silenzio. Spesso prelevati da uomini incappucciati, restano mesi senza contatti con il mondo esterno. L’unica traccia che filtra sono vestiti sporchi restituiti alle famiglie o biglietti scarni con richieste di medicine. Human Rights Watch e il Comitato per la Libertà dei Prigionieri Politici (CLIPPVE) hanno documentato 19 casi di detenzione in incommunicado protratta per settimane, mesi e, in alcuni casi, oltre un anno. Una condizione che, se prolungata, può configurarsi come tortura. Le domande presentate da famiglie e avvocati per ottenere visite sono rimaste senza risposta. Talvolta le autorità hanno negato persino l’arresto o nascosto il luogo di detenzione: pratiche che il diritto internazionale definisce sparizioni forzate. «Questi casi di prigionieri politici che sono stati isolati sono una testimonianza agghiacciante della brutalità della repressione in Venezuela», ha sottolineato Juanita Goebertus, direttrice per le Americhe di Human Rights Watch. «I governi non dovrebbero risparmiare alcuno sforzo diplomatico per garantire che questi detenuti siano rilasciati».
Secondo Foro Penal, a luglio i prigionieri politici erano almeno 853, di cui 91 stranieri. Fra loro c’è Alberto Trentini, cooperante italiano arrestato il 15 novembre 2024 mentre lavorava per l’ONG Humanity & Inclusion. Le autorità non hanno chiarito le accuse né garantito contatti regolari con la famiglia. Il 24 agosto le autorità hanno liberato 13 prigionieri politici, tra cui l’oppositore Américo De Grazia: la sua famiglia aveva trascorso oltre 380 giorni senza alcun contatto diretto. Vicende simili quelle di Freddy Superlano, dell’avvocato Perkins Rocha, del giornalista Biagio Pilieri e dell’ex consigliere comunale Jesús Armas. O dell’attivista Luis Palocz: il 14 dicembre 2024 ha chiuso una telefonata con la compagna dicendo «Ti richiamo dopo». Non lo ha mai fatto. Testimoni hanno visto otto uomini incappucciati picchiarlo e costringerlo a salire su un’auto bianca. Per giorni la famiglia lo ha cercato in tutti i centri di detenzione, fino a quando non hanno scoperto che era stato rinchiuso all’Helicoide. È uno dei simboli di questo silenzio: ex centro commerciale trasformato in quartier generale dell’intelligence (SEBIN). Una missione indipendente dell’Onu vi ha segnalato stanze di tortura. Qui e nella prigione di massima sicurezza Rodeo I le accuse rivolte ai dissidenti sono di “terrorismo”, “incitamento all’odio” e di cospirazione contro il governo Maduro. Accuse spesso formalizzate – come si legge nel rapporto – in udienze virtuali senza l’avvocato scelto dall’imputato. Le deleghe presentate dalle famiglie vengono respinte: i detenuti, isolati, non possono firmarle.
Dall’inizio di agosto, a Helicoide, le consegne di cibo e beni personali sono state ridotte al solo venerdì. «La mancanza di comunicazione e il rifiuto delle visite sono diventati una forma di tortura, infliggendo sofferenza non solo a chi è dietro le sbarre ma anche ai loro cari», ha spiegato Sairam Rivas, coordinatrice di CLIPPVE e compagna del prigioniero politico Jesús Armas. «Siamo costretti a vivere in un’angoscia e un’incertezza incessanti, aggrappandoci a segni di vita fragili come il bucato sporco o una richiesta di medicine». Sono gli ingranaggi di un meccanismo rodato, con cui il presidente Maduro prova a mantenere il controllo in un Paese svuotato da un esodo forzato di oltre sette milioni di persone e piegato da anni di crisi economica e repressione.