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 2025  settembre 23 Martedì calendario

Andrea Segrè, il prof antisprechi: «La scadenza sul secco serve a far girare la merce sugli scaffali. Il tonno dopo 5 anni è buono, dello yogurt non parlo più»

Professor Andrea Segrè, il 29 settembre, è la Giornata mondiale degli sprechi alimentari. Noi italiani, a che punto siamo? 
«I dati rilevati ad agosto dal mio Osservatorio Waste Watcher dicono che, negli ultimi dodici mesi, abbiamo buttato 28,9 chili di cibo a testa, pari a 1,7 milioni di tonnellate e 7,46 miliardi di euro. Rispetto all’anno precedente, è un dieci per cento in meno. Purtroppo, non è che siamo diventati più consapevoli: abbiamo buttato di meno perché la crisi ci ha spinti a risparmiare. Siamo lontani dal dimezzamento auspicato dall’Agenda Onu 2030 e l’Europa, nel frattempo, ha abbassato i target: meno 30 per cento per consumi domestici, distribuzione e ristorazione; meno dieci per l’industria; l’agricoltura neanche è considerata». 

È sconfortato? 
«Non del tutto. Nel 2010, con firmatari come Don Ciotti e Margherita Hack, avevo chiesto al Parlamento Europeo di dimezzare lo spreco entro il 2025. Oggi, anche se per una percentuale minore e con tempi più lunghi, abbiamo una direttiva europea obbligatoria, mentre l’Agenda Onu è solo d’indirizzo. E col mio team, abbiamo creato lo sprecometro, un’App che ti dice quanto stai buttando via in denaro e in impronta ecologica, idrica, carbonica». 
Lei come fa la spesa? 
«Con una lista scritta e zero concessioni ad acquisti extra e offerte. Guardo sempre le scadenze: le confezioni in fondo allo scaffale scadono più tardi, e, se uno yogurt scade domani, so che, domani, i fermenti lattici non si suicidano tutti insieme». 
Qual è lo yogurt più vecchio che ha mangiato? 
«A questa domanda non rispondo più. Col mio amico Massimo Cirri, conduttore di Caterpillar, facevamo il gioco alla radio a chi mangiava cibi scaduti da più tempo. Lui confessò uno yogurt di 90 giorni. Scherzava ma mi chiamò il capo dell’Asl di Bologna, dove sono Consigliere del sindaco per le Politiche alimentari. Mi disse: smettila. Il principio resta che guardi lo yogurt, lo annusi, assaggi, senti se è acido». 
Che altro ha scoperto sulle date di scadenza? 
«Sul secco, la scritta “da consumarsi preferibilmente entro” serve più a far ruotare la merce sugli scaffali che a garantire la salute. Una volta, ho trovato una farfallina nella pasta e ho pensato: tanto, si bolle, e gli insetti saranno la dieta del futuro. Un tonno in scatola l’ho aperto apposta cinque anni dopo la scadenza ed era buonissimo». 
Come nasce l’ossessione antispreco? 
«Inconsciamente, dalle mie origini. Mia nonna aveva un decalogo di vita sobria di fine ’800: finire sempre quello che hai nel piatto, rivoltare cappotti e cravatte... Mia madre, quand’ero piccolo, mi diceva: finisci tutto, i bambini del Biafra muoiono di fame». 
E consciamente? 
«Nell’80, quando studiavo Agraria, vedevo al tg montagne di pomodori e arance al macero... Mi chiedevo: che senso ha insegnare a produrre cibo per poi buttarlo? La folgorazione però arriva nei magazzini di un super per una ricerca universitaria su come si organizzano gli scaffali: vidi cumuli di confezioni di cibo finiti nei rifiuti per un solo frutto ammaccato». 
E creò Last Minute Market. 
«Era il 1998. Con colleghi e studenti creammo una cooperativa per portare gli invenduti e alle mense della Caritas, nelle case famiglia... Il concetto è che non puoi mandare i tuoi avanzi in Biafra, ma puoi risparmiare risorse per produrre cibo per il Biafra». 
Fu difficile convincere i supermercati? 
«Fu difficile convincere l’università a mettere il dieci per cento. Lo feci senza permesso. Ero pur sempre il preside della Facoltà. Poi, quando il progetto decollò, dissi al rettore: se non vieni dal notaio, ti strozzo. Rise e venne». 
Da ragazzo, s’intravedeva già il promettente prof? 
«Ero un asino massimo. Giocavo a tennis a buon livello, studiavo poco, ero rimandato in ogni materia. Fu mio padre a suggerirmi Agraria». 
Intendeva dire: braccia rubate all’agricoltura?
 «Disse solo: ho visto che c’è Agraria...E siccome a casa a Trieste non c’era, ma a Bologna sì, scelsi Agraria. Però lo sport, che al liceo era stato fuorviante, mi aveva allenato mentalmente: ho fatto l’università con la disciplina di chi prepara un torneo di tennis». 
Lei ha ispirato la Legge Gadda 2016 sullo spreco, che bilancio ne fa? 
«Ha dato incentivi a chi recupera eccedenze e rifiuti, ha fatto capire che il recupero è possibile, ma servono la prevenzione, l’educazione alimentare nelle scuole». 
Con il cardinale Matteo Zuppi, ha scritto un libro di riflessioni sul dopo la pandemia. Chi ci ha visto più lungo? 
«Purtroppo, nessuno dei due. C’era il Covid, si stava a casa, si sprecava meno, sembrava si fosse capito il valore dell’ambiente. Ma siamo stati troppo ottimisti». 
Il suo romanzo «Globesity la fame del potere» è un food thriller. Che cos’è un food thriller? 
«Ho inventato scienziati cattivi che mettono un fantomatico “glucone” nella farina: ti viene una fame insaziabile, ingrassi in modo irreparabile. Ci sono delitti, il cambiamento climatico, le multinazionali del farmaco. Nel secondo volume, c’è una fuga dentro un camion-freezer del pesce, che mi ha entusiasmato: nel camion mi sono infilato davvero, per poco, ma abbastanza per poterne scrivere». 
Nel 2018, lei ha ispirato un neologismo della Treccani: agroeconomista. «E ora, Treccani mi ha chiesto di scrivere la voce sullo spreco alimentare: uscirà per la relativa giornata nazionale, il 5 febbraio 2026. Spiegherò che sprechiamo perché non diamo valore al cibo».