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 2025  settembre 23 Martedì calendario

Ambasciate e commerci: che cosa può cambiare con la svolta diplomatica

Algeri, 5 novembre 1988. È qui che Yasser Arafat legge per la prima volta la «Dichiarazione di Indipendenza palestinese», il documento ufficiale dell’Olp che proclama la Palestina Stato indipendente. Il testo è scritto dal poeta Mahmoud Darwish ed è letto durante la sessione conclusiva del 19° Consiglio nazionale palestinese. È standing ovation. Trentasette anni dopo, con Gaza che brucia, le parole del grande scrittore dell’esilio diventano un lungo elenco di sogni infranti, ma è da questo testo dai tratti struggenti che parte il percorso internazionale per il riconoscimento dello Stato palestinese. Oggi, 151 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite lo hanno fatto. Ma che cosa significa per la Palestina questa nuova ondata di «sì»?
Che cosa è uno Stato
Partiamo dal concetto di Stato. Per essere riconosciuto come tale, un ente deve possedere quattro caratteristiche minime: una popolazione stabile, un territorio definito, un governo e la capacità di intrattenere rapporti con gli altri Paesi (Convenzione di Montevideo, 1933). La Palestina ha una popolazione permanente e un territorio che sarebbe definito, anche se in parte occupato da Israele. In Cisgiordania il governo è rappresentato dall’Autorità Nazionale Palestinese, che esercita funzioni limitate a causa della presenza israeliana, mentre dal 2007 Gaza è sotto l’amministrazione di Hamas. In questa situazione di fragilità politica e territoriale, il riconoscimento dello Stato palestinese ha soprattutto un valore simbolico. Per Gideon Levy, editorialista di Haaretz, «riconoscere la Palestina, che non esiste e non esisterà nel prossimo futuro, equivale a un silenzio vergognoso (…). Sarebbe più efficace adottare misure concrete, come le sanzioni, contro Israele per costringerlo a fermare il genocidio – un’azione che l’Europa potrebbe guidare – per poi tornare a discutere dell’unica soluzione rimasta: una democrazia condivisa tra Mediterraneo e Giordano». Tuttavia, il riconoscimento dello Stato palestinese ha delle implicazioni pratiche.
Le ambasciate
Le missioni diplomatiche palestinesi presenti nei Paesi che riconoscono la Palestina dovrebbero essere elevate ad ambasciate. Emmanuel Macron pone già un vincolo: la liberazione degli ostaggi israeliani a Gaza rappresenta un passaggio imprescindibile prima di qualunque passo diplomatico, inclusa l’apertura di un’ambasciata. Ma di certo, un riconoscimento faciliterebbe procedure come quelle per il rilascio dei visti e degli scambi tra Paesi. Ciò non significa che chi non riconosce la Palestina non abbia rapporti diplomatici con l’Anp; è il caso, ad esempio, dell’Italia, che ha un ufficio consolare a Gerusalemme Est.
I commerci
Riconoscere la Palestina potrebbe anche significare rivedere alcuni rapporti commerciali con Israele. Quei Paesi non potrebbero più comprare prodotti provenienti dagli insediamenti israeliani nei territori occupati. Non una perdita gigantesca per l’economia di Benjamin Netanyahu: anche qui vale più il simbolo.
Al Palazzo di vetro
Il riconoscimento potrebbe aprire la porta delle grandi organizzazioni internazionali, prima fra tutte l’Onu. Dal 2012 la Palestina ha il ruolo di «osservatore permanente», una posizione che le consente di sedere all’Assemblea generale ma senza diritto di voto. Tuttavia, la piena adesione all’Onu richiede l’approvazione del Consiglio di Sicurezza, dove l’America – che non riconosce lo Stato palestinese – ha diritto di veto.
Chi governa?
Sempre Macron afferma che il riconoscimento della Palestina sarà accompagnato dall’impegno dell’Anp ad attuare riforme che la renderanno un partner più credibile per l’amministrazione postbellica di Gaza. Ma non è della stessa idea Donald Trump che oggi incontra a New York i leader arabi per discutere anche la fase post-bellica: l’Anp non è inclusa.