La Stampa, 22 settembre 2025
"La mia seconda chance"
«Stiamo ancora combattendo per le stesse cose per cui lottavano gli antichi romani e per cui c’è stata la seconda guerra mondiale. La storia si ripete ed è proprio questo il problema della storia». A parlare è Kevin Spacey, premio alla carriera al Lucca Film Festival. Per lui, due volte Oscar, calorosi applausi, ma anche contestazioni e proteste da parte di un gruppo pro Pal al grido di «Palestina Libera». Nessuna domanda ammessa sui conflitti mondiali, sulla politica americana e internazionale, tanto meno sulle accuse di molestie e abusi partite nel 2017. In compenso l’istrione di American Beauty e I soliti sospetti non esita a risponderci su quanto si senta libero oggi: «Mi sento molto libero, il punto è che non la vedo come una questione individuale, ma di gruppo. Il cinema non si fa da soli, è un viaggio corale fatto di prove e fallimenti, e ancora prove, e ancora fallimenti, finché non si arriva alla meta insieme». Ha interpretato il volto oscuro del potere in House of Cards, a chiedergli come sarebbe farlo oggi risponde: «Non penso che il potere cambi il comportamento umano. È la risposta al potere che cambia, mi auguro che impareremo come genere umano a trattarci meglio a vicenda».
Cintura nera del tergiversare, Spacey è visibilmente desideroso di tornare in pista: «Quando House of Cards è stata sospesa ho visto sparire il mio mondo. Sono rimasto fermo a guardare il mondo andare avanti, le produzioni, le interviste, non ero sicuro di riuscire a tornare. Per fortuna le seconde possibilità esistono e non vedo l’ora di lavorare con registi soprattutto emergenti per aiutarli a realizzare le loro visioni». Per questo, aggiunge, da qualche anno ha attivato l’indirizzo di posta sul suo sito Kevinspacey.com: «Appena 7 anni fa sarebbe stato impossibile ricevere i copioni che leggo oggi, di giovani autori come Dustin Fairbanks di cui ho amato 1780». Del film, a Lucca in anteprima mondiale, racconta: «Per interpretare il mio trapper ho studiato come vivevano allora i cacciatori di pelli e il loro ruolo di guide esperte per i soldati, conoscendo il territorio come nessun altro». Spiazzante il consiglio che darebbe a se stesso da giovane: «Fai tutto quello che ho fatto io». Poi spiega: «Ho basato tutta la mia carriera sul teatro e fatto tanti spettacoli prima di muovere il primo passo davanti alla cinepresa. Solo sul palco si impara a esplorare l’arco narrativo di un personaggio. Quindi mi direi chiaro: “Kevin, porta il culo sul palco”. Estimatore del cinema italiano, grande amico di Franco Nero, si è appuntato i nomi del registi con cui vorrebbe lavorare: “Li ho scritti per non sbagliare: Luca Guadagnino, Paolo Sorrentino, Alice Rohrwacher, e anche l’italo-americano Martin Scorsese, spero mi chiami. In Italia mi sento sempre ben accolto, ambisco ad avere il vostro passaporto».
In attesa di tornare alla regia con The Portal of Force, dal 7 novembre sarà nella sitcom Minimarket su Rai Play: «Interpreto il personaggio che amo di più nella vita, il mentore che supporta gli altri nella realizzazione dei propri sogni». I suoi mentori sono stati «i grandi con cui ho lavorato, a partire da Jack Lemmon, a cui ho voluto dedicare il mio Oscar per American Beauty. Ma anche registi come David Fincher, che in Seven mi faceva ripetere le scene più volte per spingermi a fare meglio. O Bryan Singer, che sul set de I soliti sospetti mi sgridava». Tutta colpa di Benicio Del Toro: «Non smettevamo mai di ridere, Bryan non riusciva ad avere neanche una ripresa in cui fossimo seri. Non ci credo che sono passati 30 anni». Foriero di aneddoti curiosi, ricorda le scene di volo tagliate in American Beauty: «Avevamo filmato delle sequenze in cui volavo in sogno sopra la città, c’ero proprio io in volo in accappatoio appeso a dei fili. Poi sono state tagliate, ma il regista ha tenuto la mia voce narrante, registrata in corridoio». Deve l’amore per il cinema alla madre, la prima a mostrargli «attori e attrici come Cary Grant e Catherine Hepburn. Quando ho capito che imitando loro riuscivo a far ridere mia madre, che non ha avuto una vita facile, ho pensato che avrei voluto fare questo mestiere nella vita». Si commuove due volte, la prima ricordando l’amico Val Kilmer: «Ci conoscemmo a scuola a 12 anni, poi andammo allo stesso liceo e allo stesso corso di teatro. Mi ha incoraggiato lui a seguirlo alla Juillard per diventare attore, due anni dopo eravamo lì insieme e abbiamo debuttato a teatro a New York con Shakepeare». Chiude con un bilancio di vita: «Dopo le accuse e un momento di vita difficile, il mio obiettivo non è più dimostrare che sono l’attore migliore del mondo, ma un uomo di buon carattere». Come Robert Redford: «Non mi prese per un suo film, ero agli inizi, ma mi mandò una bellissima lettera che conservo, in cui mi ringraziò per aver fatto il provino ed essere stato talentuoso. Conoscete altri registi che fanno altrettanto con i giovani? Ecco chi era Redford. Ci mancherà tantissimo».