Robinson, 21 settembre 2025
L’ideologia è finita oggi domina il fondamentalismo
C’è una vicenda che merita di essere raccontata nonostante le sue complicate traiettorie intellettuali. Si tratta della breve storia del Collège de sociologie: durò all’incirca un paio di anni e vi operò il meglio dell’intellighenzia francese. Nel biennio 1937-1939 vi si consumò una delle più spericolate, provocatorie e talentuose storie novecentesche. A raccontarla con dovizia di dettagli è oggi Renzo Guolo con Interrogare la sfinge (edito da Mimesis). Studioso del fondamentalismo islamico, storico delle religioni e antropologo, Guolo insegna a Padova. Ha studiato sociologia a Trento e ricorda con gratitudine alcuni maestri di allora: Gian Enrico Rusconi e le sue lezioni su Max Weber, Pierangelo Schiera che spiegava la genesi dello Stato moderno.
«Scelsi sociologia perché, nonostante il clima del tempo, segnato dal primato della politica, ero convinto che alla fine a decidere tutto sarebbero stati i mutamenti nella società e che occorresse studiarli. Partire da lì, come si parte da un luogo sconosciuto».
Dove sei nato?
«A Treviso nel 1956. Madre casalinga, padre impiegato. In casa non c’erano molti libri ma circolava un quotidiano.
Era il mio legame con il mondo. Ricordo che andavo incontro a mio padre quanto tornava dal lavoro e gli sfilavo il giornale di tasca. Il primo evento che mi colpì fu la Guerra del Sei giorni: avevo undici anni. E l’anno dopo seguii con interesse quanto accadeva in Vietnam e a Praga. Non per questo smettevo di giocare a calcio o di suonare: semplicemente sentivo che dovevo comprendere cosa accadeva altrove, perché nascevano le guerre, perché la gente non ha mai smesso di uccidersi».
L’esperienza del “Collegio di sociologia” si colloca poco prima della Seconda guerra mondiale.
«Fu come se in quel laboratorio di idee e provocazioni intellettuali si presagisse la catastrofe dell’Occidente a cui opporre un’indagine approfondita sui temi del sacro, del potere e dei miti. Soprattutto il sacro. Nonostante la modernità ne avesse ridotto l’influenza, il sacro non era scomparso dalle società contemporanee ma tendeva a rivelarsi sotto altre forme».
Il Collegio ha tre protagonisti: Georges Bataille, Michel Leiris e Roger Caillois. Che relazioni intrattennero?
«Intense, a volte complicate, contraddittorie. Bataille fu la guida intransigente, Caillois il seduttore che amava stupire, Leiris il tormentato che avrebbe desiderato solo tornare alla letteratura. Bataille e Leiris ebbero un legame quasi amoroso. Le loro lettere sembravano quelle di due amanti che si incontrano, si lasciano, si tradiscono. Eppure, feriti, lacerati, questi due «piccoli dèi scorticati» – la definizione è di Bataille – si ritrovarono sempre. Resteranno legati fino alla fine».
Dei tre Bataille è il più provocatorio. Ha uno sguardo non convenzionale. È l’impolitico che giudica la politica come la “peste”. Scrive un libro sulfascismo attenendosi agli aspetti psicologici, a ciò che accade nella mente di chi vi aderisce. Ribalta la visione marxista.
«La struttura psicologica del fascismo è un testo scritto a cavallo tra il 1933 e il 34. Bataille si rifiuta di vedere nel fascismo la semplice reazione borghese contro l’avanzare del proletariato. Diversamente dalla lettura marxista cerca di comprende la natura pulsionale e “religiosa” del fascismo, il suo instaurarsi grazie al rapporto carismatico del leader con la folla. La critica alla democrazia e all’individualismo moderno “colpevoli” di incrinare l’origine sacrale del potere e disgregare atomisticamente la società – consente a quel movimento eterogeneo di mietere consensi trasversali».
È un’analisi tutto sommato parziale.
«Direi inusuale, e scomoda al tempo stesso. Vedrei una sola analogia: quella di natura psicoanalitica che, nello stesso periodo, conduce in Germania Wilhelm Reich».
Walter Benjamin che frequenta il Collegio, ma poi Adorno e perfino i surrealisti, lo accuseranno di “criptofascismo”.
«Beh, era difficile per costoro accettare un rapporto mimetico con il Nemico».
Mimetico nel senso?
«Non tanto ovviamente di identificazione ma di conoscenza dei meccanismi profondi che erano alla base del fascismo. Oltretutto Bataille coglieva un aspetto inedito, ma per battere il fascismo non era certo sufficiente competere sul terreno dei miti e dei simboli. In ogni caso, l’accusa ulteriore di “surfascismo” da parte dei surrealisti si dimostrò funzionale al loro ritorno nell’alveo della sinistra comunista nei giorni del trionfo del Fronte popolare. E poi c’era il rapporto complicato tra Bataille e Breton. I due non si amavano, anche se riconoscevano il valore dell’altro».
Quanto ai “francofortesi”?
«Fu Benjamin, in esilio in Francia dopo l’ascesa di Hitler, a informare Adorno e Horkheimer, riparati in America, sul Collegio, che peraltro frequentava assiduamente. L’accusa di Benjamin e della Scuola di Francoforte era che Bataille e Caillois non si impegnavano culturalmente nella lotta contro il fascismo. Inoltre erano sconcertati dallo spazio che i due davano alle considerazioni apologetiche di Kojève sulla Russia staliniana».
Ritieni possibile un confronto tra il Collegio e la Scuola di Francoforte?
«Si tratta di due avventure intellettuali irripetibili e diversamente fondamentali. Ma il profilo dei francofortesi è diverso: erano studiosi più strutturati concettualmente, in buona parte legati a un Istituto di ricerca sociale che alla ricerca sociologia, affiancava quella filosofica. Avevano perciò carature diverse. Pensa all’influenza che Horkheimer e Adorno, o la teoria critica, hanno avuto nelle scienze sociali».
Mentre il Collegio?
«Bataille, Caillois e Leiris, invece, non avevano alcun ruolo accademico, né erano riconosciuti come autorità in uno specifico campo: eppure a seguirne i lavori, o a partecipare come relatori, vi saranno, tra gli altri, Wahl e Kojéve, Paulhan e Klossowski, De Rougemont e Guastalla, Benda e Prevost, Lewitsky e Mayer, Sartre e Levi-Strauss. Come si vede lo “stregone” Bataille suscitava interesse. Per Pierre Klossowski era una presenza così potente da esercitare uno straordinario ascendente. Fu la stessa opinione di Hans Mayer, per il quale il fondatore del Collegio faceva pensare a quei grandi attori che alla luce del mattino ostentano un viso inespressivo ma di sera, sul palcoscenico, sono capaci di dare corpo a qualsiasi cosa, anche la più impensabile».
Lo “stregone” però non ammaliò Kojève per il quale prova anzi una vera e propria soggezione.
«Kojève, con i suoi seminari, acquistò immenso prestigio.
Al suo fascino era difficile sottrarsi. Bataille non fece eccezione. Sollecitato da Queneau, frequentò le sue lezioni su Hegel per restarne folgorato. Gli chiederà, vanamente, di partecipare sia al progetto di Contre-Attaque che al Collegio. Davanti al secondo rifiuto scriverà una lettera per certi versi sorprendente, persino imbarazzante, nel suo denudarsi. I toni rivelano il bisogno di strappare l’approvazione di Kojève».
Non credi che alcune iniziative di Bataille – penso al progetto di fondare una nuova religione o dar vita a una vera e propria “società segreta” – siano l’effetto di una sorta di onnipotenza patologica?
«La necessità di agire e dare forma a progetti di trasformazione che intendeva guidare, oscurarono il suo acume. La fase si chiuderà con la fine del Collegio. Da allora abbandonerà ogni impresa collettiva».
Anche ogni velleità sociologica?
«Ciò che chiamiamo sacro, scrisse, non può essere lasciato ai sociologi. Fu un distacco eloquente».
Forse pensava a Marcel Mauss.
«Il rapporto con Mauss fu complesso. Il Saggio sul Dono provocò l’innamoramento di Bataille per la sociologia, più che per l’etnologia. Colpito dalla nozione di dépense, dispendio, rilesse in chiave critica e non marxista l’economia capitalistica. Si trattò di un’interpretazione che Mauss ritenne forzata».
Anche sul piano politico il dissenso di Mauss fu chiaro.
«Da vecchio socialista Mauss non amava i voli pindarici di Bataille, giudicò velleitario il suo collocarsi nel fronte della sinistra rivoluzionaria. Ritenne fumose e politicamente irricevibili certe analisi filosofiche. Nella lettera che Mauss scrive a Caillois accusa i fondatori del Collegio di essere influenzati da Heidegger, di legittimare così l’hitlerismo, e di dar vita a una filosofia politica intrisa di sentimentalismo. Il vecchio Marcel deporrà così una pietra tombale sui rapporti con il Collegio. Riserve disciplinari a parte, anche in questo dissidio a contare è quella che viene ritenuta “l’ambiguità” del Collegio nei confronti del fascismo».
Questa ambiguità avvicina Bataille, Caillois e Leiris a personaggi come Drieu de La Rochelle. Anarchismo ed estetismo come insospettabile collante tra destra e sinistra.
«Per molti critici il Collegio sembra collocarsi nell’alveo dell’anticoformismo, spazio occupato nella Francia del tempo prevalentemente da intellettuali di destra che finiranno poi per collocarsi, in particolare con Vichy, a fianco del fascismo: il caso di Drieu è significativo. In realtà, proprio la guerra mostrerà che, sia pure in diverso modo, i tre fondatori saranno sul fronte opposto».
Il saggio sul fascismo di Bataille è invecchiato o ancora utile per interpretare questo momento storico?
«La situazione attuale è molto diversa, ma l’attenzione ai fattori cosiddetti irrazionali del consenso resta importante: difficile, altrimenti, spiegare il plebiscito dei ceti popolari per un miliardario come Trump. Quel saggio continua a parlare anche a noi».
Tra quegli anni Trenta e nostri anni Venti trovi qualche assonanza o sono inconfrontabili?
«Le assonanze non sono negli attori o nel contesto storico. La similitudine tra anni Trenta e il presente è semmai nell’intensità delle lacerazioni, nella crisi delle democrazie e nel riemergere di nuovi e vecchi autoritarismi, nell’esplodere di conflitti che mandano all’aria l’ordine e il diritto internazionale, nella disumanizzazione del Nemico. È questo tessuto, oltre che l’ampiezza dei punti di rottura, a preoccupare».
Hai studiato a fondo l’Islam e l’avventura intellettuale della Francia tra le due guerre. In che ordine?
«Devo partire da lontano. L’Africa fantasma di Leiris e Il Collegio di Sociologia di Denis Hollier, pubblicato in Francia solo alla fine degli anni Settanta, sono state letture giovanili importanti per me. Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto confrontarmi con i temi che vi emergevano. Poi altri interessi, passioni, esigenze accademiche, hanno deciso altrimenti. Il progetto è rimasto in un cassetto, riaperto quando ho pensato che temi come il sacro, il mito e il potere potevano aiutare a rileggere il nostro presente».
E l’Islam?
«Il mio interesse per il fondamentalismo islamico, che certo non esaurisce l’islam, non è quello di un orientalistao di uno studioso del mondo islamico in senso stretto, ma di un sociologo che si occupa della relazione tra politica e religione e delle ideologie come concezioni del mondo totalizzanti. L’innesco è stata la rivoluzione iraniana del 1979. Mi colpiva constatare che in Occidente le grandi ideologie secolari erano scomparse, o stavano tramontando, mentre la religione si trasformava in ideologia nel cuore dell’Islam».
Solo nell’Islam?
«Movimenti simili sono accaduti anche in altri contesti. La dimensione messianica della destra nazional religiosa in Israele, oggi sotto gli occhi di tutti, è oggetto di un mio studio ritenuto pionieristico: Terra e redenzione, del 1997. È difficile, ad esempio, comprendere l’India di Modi senza rivolgersi all’influenza del fondamentalismo indù».
Mentre in Occidente?
«Da noi dilaga, in chiave etnica, una sorta di identitarismo cristiano che guarda alle religione altrui come manifestazioni del nemico. Per questo è fondamentale – Bataille lo aveva capito – indagare la relazione tra religione e politica. Anche se la politica è diventata residuale, si limita a seguire la società rinunciando al suo compito di orientare. È in pratica semplice amministrazione. Chi guida davvero, si pensi oggi al capitalismo digitale, si colloca su un altro piano».
Dobbiamo salire di livello.
«O provare a scendere nel sottosuolo».