corriere.it, 20 settembre 2025
Fogazzi (Estetista Cinica): «Mi inseguono da un anno per farmi fare testamento. A Brera fui una scema, piansi con i dipendenti. Lavoro con Ferragni, serve allearsi contro la cosmesi coreana. Agghiacciante la magrezza delle creator»
Ospite di Selvaggia Lucarelli e Serena Mazzini nel podcast “Burnout”, Cristina Fogazzi – fondatrice del colosso della cosmetica VeraLab, conosciuta sui social come L’Estetisca Cinica – ha raccontato alcuni episodi del passato che l’hanno vista protagonista. Senza peli sulla lingua, come da prassi, in oltre due ore di chiacchierata.
Fogazzi ha ricordato, come spesso succede, i suoi inizi: «Non arrivano dalle favelas, vero è tuttavia che ho cominciato da una situazione economica non rosea. Nel 2010 avevo un centro estetico a Milano con una dipendente, la publicità erano il telemarketing o gli stand nei supermercati. Nel 2012 apro una pagina facebook L’estetista cinica e lì tutto cambia; ora sarei chiamata Grassofobica, mi vergogno ma è così. Facevo vignette, parlavo di cellulite per pubblicizzare il centro estetico, ero lì solo per spingere quello. Divento una “esperta”, scrivo un libro, nel 2015 penso a un prodotto cosmetico, metto su un prodotto e commerce: funziona. Oggi ho 155 dipendenti, 10 negozi in tutta Italia, ho un ad e un general manager, stiamo mettendo un piede in Spagna, a dicembre ho venduto il 30% dell’azienda a un fondo di private equity che si chiama Peninsula Capital».
Tante polemiche. Costruite o casuali? «In tante polemiche mi sono infilata e potevo stare zitta, ma i social diventano una serie di droga: c’è una parte di ego che viene accarezzato quando le persone ti chiedono un parere. A una cena ho litigato con una no vax che poi se ne è andata: diceva che la medicina si studiava sui libri del 1800 e per me era troppo...non sono una polemista per finta, ce l’ho nel carattere. il dissing non lo monetizzi, ma se mi permette di posizionare una idea sicuramente lo faccio. C’è molto più ego che piattaforma nei miei comportamenti social, il 90% delle volte non c’è una strategia».
Poi, una a una, ha raccontato tutte le controversie recenti e passate che l’hanno vista protagonista. Sul caso Ferragni aveva inizialmente preso le difese di Chiara: «Temo anche io crolli reputazionali come il suo? Ho limato me stessa, mi sono fatta aiutare, ho letto tanto. Mentre succedeva io lavoravo, registro i video ogni giorno ricavandomi tre ore: ero “tombata” nelle riunioni in quel momento, durante il caso Ferragni stavo cedendo la società. Sono stata miope e in ritardo perché ero immersa in quell’ambiente e non ci ho prestato abbastanza attenzione. Ho fatto un video con lei? Non era coalizione, era lavoro: l’ho pagata come influencer, la conosco e ho un buon rapporto ma in quel caso era solo una sua adv per il mio brand. Non possiamo metterci a rivaleggiare tra noi italiane, in questo momento la cosmesi coreana è l’antagonista sul mercato, si adattano bene alla pelle delle giovani».
Quindi, la querelle sui “punti fagiana”, ossia i buoni fedeltà che aveva erogato alle sue clienti sbagliando però gli importi e trovandosi costretta a un dietrofront per evitare di affondare. Era divenuto virale il video nel quale, in lacrime, spiegava l’errore alla sua fanbase: «Agcom ha archiviato la mia posizione. Sintetizzo: avevo una raccolta punti legata alla vendita dei prodotti, aperta quando il sito era piccolissimo, che ti permetteva di avere dei regali. L’ho fatta durare tre anni, ma nel frattempo il sito era esploso. Io regalavo accappatoi e non era un problema di soldi ma di capannoni, non avevamo il posto per tenerli. Allora decidemmo di convertire i buoni in soldi, ma abbiamo fatto due errori di calcolo: il sito era ancora quello del 2015, l’ho rifatto un anno fa, me lo fece per 5 mila euro il miglior amico di mio marito. Aveva il disco rigido che si incriccava e ha dato un numero sbagliato, era una cifra superiore (ogni punto fu valutato 50 centesimi e non 5) a quella che doveva essere. Dopo 10 giorni mi sono resa conto che non era fattibile: dissi che avevo fatto un “merdone”, non ne potevo uscire. Così ho parlato alla community chiedendo comprensione e sono state stupende: le ringrazio ancora ora. Sono stata segnalata ad Agcom, ma ho avuto ragione».
Glissa su un possibile plagio nei suoi confronti da parte di Alessia Marcuzzi: «Ha fatto uscire Luce, così simile al mio Luce Liquida? Ho imparato anche a tacere...VeraLab in questo momento ha superato Estetista Cinica, ossia il prodotto che creiamo ha superato il mio “personaggio”. Spiega invece nel dettaglio il botta e risposta con Giorgia Soleri, che l’accusò nel 2024 di discriminazione per le limitate scelte cromatiche del suo fondotinta Overskin: «Per i miei fondotinta, avevo solo 12 colorazioni di pelle tutte chiare, eppure ne avevo fatti dodici proprio per cautelarmi e ampliare la scelta. Una mia assistente al telefono disse a una cliente: “Il nostro makeup è creato per persone comuni”, mi sono scusata io con lei per non averle dato gli strumenti. Da quel momento ci siamo tutti formati, ora ho 24 shade: ci mancava qualcosa, ora abbiamo una persona che lavora solo sulla parte dark skin. Con il tempo mi sono sentita una merda, ho capito che il mio era uno sguardo parziale».
Infine, la madre di tutte le polemiche. Quella scoppiata nel giugno 2024 per aver utilizzato la pinacoteca di Brera per una festa privata (costata quasi 100 mila euro), volta a spingere il brand anche in Spagna. «Io da bambina volevo curare mostre d’arte, quando vengo attaccata per questi motivi me la prendo. Mi capita di reagire in maniera scomposta. Il classismo a me manda ai matti», la premessa, per poi fare mea culpa e raccontare nel dettaglio cosa seguì a quel battage mediatico e social. «La mia era hybris, tracotanza: hai sempre avuto una community fedele e pensi che a te una shitstorm non possa accadere. Per le mie collaboratrici creare quell’evento era normale. Io non ho e non avevo un crisis manager, mi rendo conto sia un’aggravante non averlo capito. Poteva ricadere anche sugli stakeholder, potevano pensare fossi una cretina: è successo, non ho altro da dire se non che sono stata arrogante. È quello che è successo, sono stata scema. Avevo appena ceduto il 30% dell’azienda, potevo fare una cosa così se ne avessi avuto coscienza? Ho sbagliato, ho fatto una gigantesca cazzata. Per questo mi sono spaventata, non me lo sarei aspettata. Quando ho visto la faccia del mio CFO in ufficio mi sono vergognata davanti ai miei dipendenti, avrei scavato una buca, sono sincera. Ho temuto pensassero fossero nelle mani di una cretina, c’è gente che lavora per me e ha fatto un mutuo. Da lì è stato messo un punto fermo, sei mesi dopo mi sono scusata con tutti in una cena aziendale: ho pianto, ho agito in maniera irresponsabile. Il mio problema non era “l’influcirco”, era cosa stavo comunicando a un mercato nel quale sono cresciuta tantissimo dal 2015 a oggi. La questione Brera è deflagrata, non ci avevamo capito niente: c’è stata una settimana di discussioni, qualcuno ha reagito in maniera scomposta anche verso Selvaggia Lucarelli, poi abbiamo reagito. Sono andata dal mio psicologo che non ha i social e non capiva. Puntavamo sul lancio in Spagna, in un’agenzia di eventi mi propongono location: mi avevano sconsigliato la Pinacoteca perché non potevamo cucinare dentro e per i costi. Ma per me essere lì era una magia, l’arte era il mio sogno e ho sempre fatto cose con l’arte. Mi sembrava il luogo perfetto, non volevo “comprarmi” quel mondo. A me l’arte piace, è una mia passione, non volevo sbattere in faccia niente a nessuno. Per me era semplicemente la location più bella del mondo».
Qui l’autocritica per poi passare al riconoscimento dei propri meriti, non senza retroscena: «Ho 51 anni, mi inseguono da un anno per fare testamento, in questo momento lascerei tutto a mio padre e mio marito. Non ho mai voluto avere figli. Io sono quinta tra le aziende di skincare che fatturano maggiormente in Italia. Mi inalbero quando si confonde il business con la mia personalità: la ruota a Sanremo o l’albero di Natale in Piazza Duomo sono operazioni di marketing. A un certo punto mi sono detta: “Guarda cosa hai creato, dove sei arrivata e smetti di essere arrabbiata”. Sono arrivata a un punto che nemmeno pensavo esistesse, non poteva essere nemmeno un sogno. Non mi manca niente. Nessuno si è chiesto quanti soldi ho preso vendendo il 30%?»
Ma è vero che urla in ufficio? «Ho costruito un’azienda nella quale cerco di far stare bene le persone – la risposta – perché io ho sempre lavorato male e pagata male. Il malcontento dei lavoratori può diventare una bomba a orologeria. Martina Strazzer è stata inesperta, non sarò io a puntarle il dito addosso». E ricorda i primi tempi nella metropoli, il pendolarismo dalla provincia: «Abitavo a Brescia, avevo una Twingo per lavorare a Milano, c’era la doccia e io avevo una brandina (che ho ancora) per dormire in ufficio. A Brescia dicono che i soldi dei poveri e le palle dei cani sono le prime cose che si vedono. La povertà è ancora il grande stigma, io racconto la mia storia anche perché spero di aiutare gli altri».
Infine, un grido d’allarme rivolto alle donne, giovani e non: «Al centro estetico ho visto donne sgretolarsi, le donne vanno messe al riparo perché il giudizio estetico influenza tantissimo. Io mi ero messa in mutande sui social perché mi sentivo dignitosa, lì invece ho capito quanta ferocia ci sia anche su un corpo normale. La prima cosa che ti dicono per insultarti è che sei grassa. Allora sono tornata a pubblicarmi in mutande: il problema non sono io, ma quelli che commentano. Le creator però oggi hanno corpi molto magri, estremamente magri, è agghiacciante vedere bambine che cercano la magrezza estrema per somigliare a loro».