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 2025  settembre 20 Sabato calendario

La fine di Allende, il carcere, la scrittura "Fai sapere a tutti che non ho parlato"

Intervista pubblicata su Tuttolibri nel 2013
Un’alba tiepida, un annuncio della primavera cilena. «Alle sette della mattina io ero un giovane di 23 anni e alle “cinco de la tarde”, alle cinque del pomeriggio, ero un uomo maturo». Luis Sepúlveda, che faceva parte del Gap (Grupo de Amigos Personales) incaricato di sorvegliare sulla sicurezza del presidente Salvador Allende, invecchiò improvvisamente. «Quel giorno», l’11 settembre 1973, di cui proprio quest’anno ricorrono i quarant’anni, «era morta la mia giovinezza». Ancora oggi lo scrittore che, nato a Santiago del Cile, vive in Spagna non riesce a non commuoversi ricordando il presidente-fondatore del partito socialista cileno, morto a seguito del colpo di Stato militare appoggiato dagli Stati Uniti. Dopo quella maturità così forzatamente conseguita, Sepúlveda di vite ne ha vissute tante: ha avuto una condanna all’ergastolo commutata in esilio, ha cercato rifugio in Paraguay, in Ecuador, si è unito alle Brigate Internazionali di Simon Bolivar in Nicaragua, ha ottenuto la cittadinanza francese e venduto milioni di copie dei suoi libri. Non a caso il titolo dell’ultimo racconto recita Ingredienti per una vita di formidabili passioni (Guanda editore).
Gli ingredienti dal sapore più forte?
«Avevo 13 anni e sognavo di diventare un grande calciatore: ero un discreto attaccante dei giovanissimi dell’Unidos Venceremos, la squadra del mio quartiere. Regalai a una ragazza una foto per me molto preziosa della nazionale cilena corredata dalle firme dei giocatori e lei fu disgustata. “Ma cosa ti piace?”, le chiesi. “La poesia": nella mia modesta casa avevo solo pochi libri, Salgari, Julius Verne, Karl May. Per amore scoprii García Márquez, Antonio Machado, Gabriela Mistral, Neruda. L’attrazione per le parole si rivelò diversa da quella che avevo provato per Gloria, la letteratura ero sicuro che mai mi avrebbe tradito. E così il calcio cileno ha perso un grande centravanti».
La scoperta della militanza politica?
«Sono entrato a far parte della Gioventù comunista del Cile e, con le mie opere teatrali di agitazione e propaganda, a soli 16 anni, ero il bardo degli studenti. Frequentavo la scuola di teatro, ambivo a una borsa di studio per il Berliner Ensemble. Nel frattempo ottenni di poter seguire i corsi all’Università Lomonosov di Mosca ma venni espulso. Unione Sovietica e Cile non condividevano la stessa idea di socialismo: nel mio paese si rispettavano le regole del gioco democratico. In Urss avevo avuto contatti con alcuni dissidenti. Rientrato, quando mi venne proposto di far parte dei gruppi vicini al Presidente, buttai alle ortiche l’avventura europea. Ho avuto tanti riconoscimenti e onori nella mia vita ma quello mi è sempre sembrato il più grande».
Così mise la penna a riposo?
«Macché. Le riviste sindacali erano state la mia palestra e la mia attività si quadruplicava. Dormivo pochissime ore a notte. Pubblicavo per la casa editrice di Stato Gorkij, Calvino, Mauriac, Orwell: 250-300 mila copie, andavano via come panini. Ero anche redattore della radio dell’università».
La sua vita cambia dopo il colpo di Stato?
«Ero addetto alla sorveglianza delle condutture che portavano l’acqua a Santiago quando arrivò la notizia che l’esercito aveva assediato il palazzo presidenziale e lo bombardava con i caccia. Io ero a 30 km dalla città. Rientrammo e ci destinarono all’ospedale Barros Luco che serviva la più grande comunità operaia di Santiago. I soldati avevano messo al muro medici, infermiere e vari pazienti. Ascoltammo alla radio le ultime parole del Compañero Presidente che esortava a resistere. Dopo sono stato incarcerato, ho marcito a Temuco e la cosa che più ricordo sono gli occhi dei compagni massacrati, torturati, che, quando tornavano in cella, riuscivano solo a dire “fai sapere che non ho parlato”. Di loro non sono rimasti che frammenti di ossa, poi identificati con l’esame del dna. Dopo quest’esperienza mi sono fatto catturare sempre più dalle vicende di chi è ai margini, dai contadini ai minatori delle Asturias in sciopero. Ho sempre coltivato il desiderio di dar voce a chi la voce non l’ha. Nel campo di concentramento di Bergen Belsen c’è una scritta terribile: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia"».
Il combattente di sempre non ha deposto le armi: adesso si è rifiutato di far parte della delegazione ufficiale del suo paese a cui quest’anno è dedicato il salone del libro di Torino: «in quanto il Cile ignora e viola sistematicamente i diritti fondamentali del popolo mapuche». Oggi in che direzione vanno le sue passioni?
«Ho protestato anche perché senza alcun ritegno viene devastata la Patagonia e il suo ambiente, a cui sono molto legato. L’attuale ribellione dei giovani non è meno consistente delle rivolte dei ragazzi del secolo passato e sta divampando in Europa e in America. La loro denuncia investe lo strapotere di broker e banchieri. Questa è la sfida del futuro: sconfiggere la dittatura internazionale delle banche».