Tuttolibri, 20 settembre 2025
In opere e inimicizie la fuga di Pasolini dallo stile medio
Passione e ideologia, il titolo che scelse per una sua raccolta di saggi, contiene un binomio che lo definisce: la parte di sé più impulsiva e emotiva, in accordo o scontro con quella razionale e militante, gli hanno permesso, nel tempo, di farsi molti amici, ma anche molti nemici. Poi l’ inconscia tendenza a confondere l’odio con l’amore – che è al centro di tanti suoi scritti – l’ha spinto a volte a trasformare gli affetti in antipatie, e viceversa. Nel gruppo moderato e spesso grigio dei nostri letterati novecenteschi Pier Paolo Pasolini spicca per il talento speciale che ha sempre avuto nel procurarsi gli uni e le altre. Del resto è sempre stato attratto dagli opposti, sociali e psicologici: anche dal punto di vista formale l’opera che ha messo insieme potrebbe essere vista come una fuga instancabile dallo stile medio.
Della sua fitta rete di amicizie intellettuali si sa molto, perché hanno fatto parte della sua quotidianità e spesso sono entrate nella sua opera (Moravia, Bertolucci, Penna, Gadda, Longhi), a volte perfino sublimandolo in forme di venerazione, o di amore impossibile (Betti, Callas). Ma anche alcune delle sue inimicizie più aspre sono documentate nei testi – per esempio negli epigrammi di La religione del mio tempo (come quello per Gian Luigi Rondi: «Sei così ipocrita, che come l’ipocrisia ti avrà ucciso/ sarai all’inferno, e ti crederai in paradiso»). E ogni tanto, fra i testi, affiora un po’ di materiale nuovo. Nei mesi scorsi, mentre curavo il volume dal titolo Pasolini e il Corriere della Sera (1960-1975) – un’edizione appena arrivata in libreria che raccoglie e introduce tutti gli articoli che Pasolini scrisse per il quotidiano milanese – ho avuto modo di trovare nell’Archivio storico di via Solferino, grazie all’aiuto di Andrea Moroni, un pezzo pasoliniano che, regolarmente consegnato, non vide mai la luce, né sul quotidiano né altrove. Risale all’inizio del’75, mentre sulla stampa italiana infuriava una polemica innescata proprio da un articolo di Pasolini, il famoso Sono contro l’aborto. L’inedito s’intitola Quiz e prende la forma singolare dell’indovinello rivolto al lettore («questo articolo presenta, in quanto articolo di un giornale, una novità. Io vi descrivo un personaggio e il lettore deve indovinarlo»). Seguono cinque cartelle che abbozzano il ritratto – al vetriolo, è il caso di dirlo – di un misterioso, anonimo personaggio che pare contenere in sé molti dei difetti umani e intellettuali che Pasolini più detestava, inclusi dettagli come la costituzione grassoccia e l’odio per il calcio (comunque significativi per chi come Pasolini teneva molto alla linea e dichiarava di aver trascorso giocando a pallone le ore più belle della vita). Quest’uomo «vistosamente colto» è «una di quelle ridicolissime persone che hanno il senso del ridicolo», ma lo esercitano in modo stravagante, cioè burlesco e teppistico. «La qualità che il nostro personaggio con più decisione rifiuta di avere è la qualità di essere un uomo che crede in qualcosa»: né passione né ideologia, nel suo caso.
Ebbene, vari indizi spingono a identificare in Giorgio Manganelli la vittima di Quiz. Anche perché tra le numerose repliche sdegnate o ironiche al pezzo antiabortista di Pasolini – che per lui era insieme difesa di una simbolica vita prenatale («La mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente») e critica al permissivismo fintamente democratico del «nuovo potere dei consumi» – una delle reazioni più feroci, perché burlesca, era stata proprio quella di Manganelli. Pronto a ironizzare non solo sui simboli pasoliniani («La mia memoria amniotica è piuttosto corta: che allora fossi felice, chissà mai, senza nemmeno un libro da leggere»), ma anche, e più pesantemente, sul suo «mammismo» («Con lieve correzione dell’apotropaico detto popolare, “di mamma ce n’e? una sola”, dal contesto di Pasolini si puo? trarre lo slogan programmatico, “di mamme ce n’e? un miliardo solo”. Troppe, a mio modo di vedere»). L’ironia sulla madre, antico punto debole, deve esser stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza di Pasolini, che nei mesi precedenti aveva già avuto modo di polemizzare sul «teppismo» di Manganelli (il quale a sua volta, testimone Pietro Citati, «un solo scrittore italiano detestava: Pier Paolo Pasolini»). Insomma: una resa dei conti fra vecchi nemici. Ricevuto un ritratto così corrosivo, il vicedirettore del Corriere Barbiellini Amidei convincerà Pasolini a soprassedere («Gli obiettai che lo scrittore raffigurato se avesse letto l’articolo si sarebbe riconosciuto e sarebbe stato duramente colpito. Lui rinunciò a divertirsi»).
Affetti duraturi trasformati in materiale letterario, oppure odi antichi degenerati in risse verbali e fisiche (pare che tra Pasolini e Parise una sera sia finita a pugni): tra i due estremi che abbiamo delineato direi che il caso più interessante, e anche più tipico di Pasolini, è proprio quello di grandi legami affettivi trasformati in grandi conflitti – a volte non privi di colpi bassi, ma sempre molto redditizi in termini culturali e letterari. Caso tipico, perché dà il senso del dinamismo incessante di Pasolini: tanto del suo bisogno anche psicologico di non stare fermo mai, quanto della sua tendenza a evolversi traumaticamente, a forza di negazioni ed abiure (proprio come nella sua opera: le borgate romane prima paradiso innocente poi inferno neocapitalistico, gli Eritrei – conosciuti ai tempi dei sopralluoghi cinematografici – prima amati e poi odiati, la Trilogia della Vita a cui aderire prima e da cui subito dopo prendere le distanze: eccetera eccetera). Caso interessante, inoltre, perché documenta una capacità ormai perduta di dibattito culturale, pubblico e privato.
Oggi tra scrittori e scrittori o tra scrittori e critici la polemica è considerata una forma grave e imperdonabile di maleducazione; la rimpiazza l’elogio reciproco e permanente, per cui un eventuale sporadico dissenso anche garbato espresso in pubblico non merita altra risposta che un silenzio carico di odio (e al limite un ban sui social). Nel Novecento ancora ci si ostinava a credere che dallo scontro intellettuale potesse nascere anche qualcosa di utile. Pasolini ha imparato tanto dalle tante critiche che ha ricevuto (dai nemici ma anche dagli amici); molti dei suoi risultati migliori nascono dalla risposta alla disapprovazione altrui.
Si può pensare, in questo campo, ai suoi rapporti con Calvino o Fellini, inizialmente complici e poi freddi (sulla scia di modi opposti di intendere i rispettivi linguaggi artistici, e insieme di una maniera sempre intelligente e sincera di farsi le pulci a vicenda). Ma soprattutto andranno considerate le relazioni ben più lunghe, intense e nevrotiche con Franco Fortini e Elsa Morante, amici geniali e leggendari rompiscatole. Pasolini comincia il suo rapporto con Fortini negli anni Cinquanta, nel senso di un grande rispetto intellettuale, ricambiato da una comprensione stilistica acuta (soprattutto delle poesie friulane, delle Ceneri di Gramsci, dei romanzi romani). Li avvicina il progetto comune di una rivista piccola ma importante come Officina; li allontana brutalmente la politica, i modi diversi di intendere il marxismo negli anni Sessanta, ma forse soprattutto la psicologia – lo scarto tra l’ossessione fortiniana per la maturità e il bisogno di Pasolini di sentirsi, come scrisse Renzo Paris, «ragazzo a vita» («Adulto? Mai – mai, come l’esistenza/ che non matura»): Finisce con l’unirli Attraverso Pasolini, il libro che Fortini dedica all’amico-rivale poco prima di morire, nel ’93: uno dei più bei saggi di critica letteraria della fine del Novecento.
Con Elsa Morante c’è più intesa da subito: la cementa il mito di Narciso, di cui sono entrambi seguaci, e il sogno comune di una rivoluzione fatta da giovani poveri. Per quindici anni s’incastrano a meraviglia: lei gli presta le musiche per i film e certe categorie filosofico-antropologiche (l’irrealtà, la grazia, la barbarie), lui è il fanciullo coraggioso, affascinante e poetico che lei avrebbe voluto essere. I rapporti s’incrinano nel ’72, quando Ninetto Davoli decide di sposarsi, Pasolini entra in crisi e Morante gli spiega a sorpresa che Ninetto fa bene. Quando due anni dopo esce La storia, Pasolini la recensisce con un pezzo in cui oscilla fra complimenti e aggressioni, osservazioni ingiuste e altre illuminanti; una stroncatura bellissima e strana, a cui Morante non risponderà mai. Ma con Aracoeli, nell’82, renderà all’amico scomparso l’omaggio più commovente che un romanziere possa permettersi, fondendo per sempre una parte di sé a una di Pasolini nel costruire il personaggio di Emanuele – protagonista di quello che forse è il suo romanzo più bello.