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 2025  settembre 21 Domenica calendario

Ora Pechino nel Sahel fa i conti con i jihadisti

L’ultimo episodio è avvenuto il 6 settembre in Nigeria: un convoglio di uomini armati ha ucciso otto contractor privati della Nigeria Security and Civil Defence Corps e rapito quattro operai cinesi della Bua Cement, nello Stato di Edo. I lavoratori asiatici sono stati poi liberati, eccetto uno del quale si sono perse le tracce.
La notte precedente, come ha riportato al-Jazeera, nel villaggio di Darul Jama, vicino al confine nigeriano con il Camerun, nello Stato di Borno, si era scatenato un inferno: un altro raid armato compiuto sembra di Boko Haram, che continua a seminare terrore tra i civili, i miliziani hanno iniziato a sparare alla cieca in un villaggio. I terroristi nel villaggio di Darul Jama hanno letteralmente massacrato una sessantina di persone, ma il numero delle vittime varia a seconda delle fonti. Il capo villaggio ha raccontato: «Sono andati di casa in casa, uccidendo gli uomini e lasciandosi dietro le donne. Praticamente ogni casa del villaggio è stata colpita».
Una violenza cieca, che non si registrava da mesi. Ma che cosa succede in Nigeria? E che succede anche nel “vicino” Mali, dove gli episodi di violenza estrema sono in aumento (come in tutto il Sahel), e tra le vittime ci sono sempre più spesso operai cinesi? Esiste una volontà precisa di attaccare il personale asiatico o si tratta solo di coincidenze dovute al fatto che i siti minerari sono spesso gestiti e “lavorati” da Pechino? Tralasciando il ginepraio nigeriano (dove non a caso arrivano nuovi gruppi armati direttamente dal Mali), a Bamako sempre più spesso imperversa Jama’at Nasr al-Islam wal Muslimin, il cui acronimo è Jnim. Diversi centri di ricerca (americani e non) e un report delle Nazioni Unite, mettono in luce la dinamica interna al nuovo assetto del Sahel, dove le giunte militari che hanno preso il potere (e gestiscono i siti minerari tramite partner economici stranieri, non ultimi cinesi) entrano in competizione con i gruppi armati regionali di derivazione jihadista. «La principale ambizione (di Jnim ndr) è quella di creare un emirato che possa sfidare la legittimità dei regimi militari e forzarli a cedere potere, implementando la sharia», si legge in un documento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite firmato da Christina Markus Lassen.
Ma questo gruppo è andato oltre, salendo di livello, «per condurre attacchi complessi con i droni», dice l’Onu. Difficile e fondamentale sarebbe capire chi lo finanzia. Per ora si sa solo che l’uso di armi sofisticate, tra cui appunto i droni, da parte dei gruppi armati jihadisti, è un nuovo trend. E Pechino pare avere un ruolo di contrasto al terrorismo. Dalla fine di luglio ad oggi i raid di Jnim hanno preso di mira sette siti industriali in una delle zone top per l’estrazione di oro e litio in Mali, e sei di questi siti erano guidati da società cinesi.
La Cina è un partner economico collaudato in tutta l’Africa subsahariana e alleato delle giunte golpiste militari del Sahel. E sta diventando nuovo protagonista delle attività di controterrorismo in Africa. «Il 2024 è stato un punto di svolta per Pechino», afferma il Combating terrorism center: «La Cina ha potenziato l’uso della diplomazia militare» per diversificare la sua influenza in Africa. In poche parole, sostiene il dossier, Pechino è sempre meno neutrale e sempre più presente con logistica, contractor e armi.
Tuttavia per disinnescare il terrorismo si dovrebbe anzitutto impedire di vendere armi ai gruppi di potere. La logica cinese (così come quella americana, con la quale Pechino compete) vanno in direzione opposta, e alimentano il conflitto.