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 2025  settembre 21 Domenica calendario

Intervista a Ferdinando Scianna

Icona.
E perché?
Meglio maestro.
Ha il grembiulino?
Magari può mettere in soggezione.
Per i miei 82 anni?
È portatore di una storia straordinaria.
Secondo me ogni storia lo è.
La sua è diventata un bellissimo documentario di Roberto Andò, presentato a Venezia. Quando lo ha visto cosa ha pensato?
(Sorride) C’è chi mi ha quasi accusato di ridere troppo e di parlare troppo della morte.
E…?
Ho risposto che se è così, allora è un ritratto somigliante: rido spesso, perché è uno dei gesti più importanti e filosofici, e considero la morte e l’amicizia due assi fondamentali della vita; (cambia tono, serio) sono grato al documentario sia sul piano personale, nei confronti di Roberto, sia per chi ha trasformato le mie ossessioni in un giudizio generoso.
(Ferdinando Scianna è uno dei grandi, grandissimi occhi sull’esistenza collettiva. È un testimone al rallentatore, una moviola, perché i suoi scatti sono dei fermo-immagine su quello che ci circonda e spesso non cogliamo. Ha visto, attraversato, conosciuto. E il documentario di Andò mette insieme e restituisce alcuni “rullini” di un’esistenza extra ordinaria).
Nel documentario ci sono testimonianze importanti.
Soprattutto il mio ultimo incontro con un amico fraterno come Gianni Berengo Gardin; quell’incontro mette in evidenza ciò che ho sempre sostenuto: noi siamo quello che ci hanno fatto gli altri, specialmente gli amici, e quando un amico muore te ne rendi conto in maniera inequivocabile.
Un incontro tenero.
Perché era tenera la nostra amicizia lunga 60 anni.
Berengo Gardin parla di lei con ammirazione anche per le sue capacità oratorie e giornalistiche.
Più per le mie doti in cucina; (pausa) spesso mi usava come killer.
Cioè?
Mi chiamava ed esordiva: ‘Hai letto che stronzate ha scritto quello? Perché non gli rispondi?’. ‘Fallo da solo!’. ‘No, sei più bravo’.
E questa è l’amicizia, ma come sosteneva prima, nel documentario c’è la morte.
Mio padre ripeteva: ‘La fotografia ammazza i vivi e resuscita i morti’, perché nel nostro paese c’era solo un fotografo e spesso i vecchi morivano senza possedere neanche un’immagine da piazzare sulla tomba. Allora lui scattava una foto al defunto e poi, a mano, ritoccava gli occhi in modo che sembrasse in vita al momento dello scatto; peccato che quando immortalava i vivi l’effetto non era altrettanto vivace.
Insomma, guardandosi…
Mi sono ritrovato per quello che sono: un chiacchieratore, un ricordatore, uno che costruisce il presente a partire da tanti fili che lo legano al passato; ho ritrovato pure le mie duplicità.
Tradotto?
Marco Belpoliti ha scritto un romanzo, Nord Nord, e dentro ci sono anche io: lui gioca sul fatto che sono nato come Fernando Scianna a Bagheria e sono diventato Ferdinando Scianna a Milano.
Cosa significa?
Milano l’ho amata e amo moltissimo, e qui ho scoperto che potevo essere una persona urbana, un cittadino, non solo il figlio di un mondo contadino; (pausa) nel documentario ho ritrovato questa duplicità: il posto da cui si fugge e da cui non si può fuggire e il posto che ti accoglie e nel quale aderisci a partire da tutti i fili che ti legano a quello da cui sei fuggito.
Lei da ragazzo a Milano.
Anno 1966, iniziavano a girare le prime Fiat 500 e a Torino c’erano cartelli con su scritto: ‘Affitto, escluso a meridionali’.
È storia.
Affronto Milano, ho 24 anni e arrivo da Bagheria; è come se oggi fossi un palestinese o un marocchino; (pausa) in tasca avevo un passaporto personale: il mio primo libro pubblicato. Con quel passaporto entro in un palazzetto dove affittavano appartamenti di 50 metri quadrati e trovo un signore bergamasco, una specie di Buddha. ‘Vorrei prenderlo’. ‘Bene, ma lei che fa? Chi è?’. ‘Vengo da Bagheria, ho pubblicato un libro e vorrei diventare fotografo’. Gli mostro il libro, lo sfoglia: ‘Già lavora?’. ‘No, sto cercando’. ‘Ma affitterebbe a uno che viene da un posto a me sconosciuto, che cerca un lavoro a me altrettanto sconosciuto e per giunta neanche lo fa?’.
Risposta?
Me ne sono andato. Dopo pochi metri ci ripenso e torno indietro. ‘Ha ragione, ma cosa ci posso fare?’. Quel signore è rimasto in silenzio: ‘Proviamoci’. Questa per me è Milano.
Sciascia come giudicò la scelta di Milano?
La sua indicazione è arrivata tempo prima di partire: ‘Cosa vuoi combinare nella tua vita? Il fotografo? E allora devi andare, altrimenti laureati e diventa professore. Ma guarda che la differenza tra una persona rispettabile e una che non fa un cazzo è piccola’.
Non la trattenne.
Per niente; (ci pensa) non sono scappato dalla miseria, ma sono andato in cerca di un posto dove realizzare i miei obiettivi nonostante mio padre mi giudicasse un isterico-marziano.
Suo padre coltivatore di limoni.
Sono figlio del limone, per me è dolcissimo, meraviglioso: ne ho mangiati a tonnellate. Ed è importante come sbucciarlo.
Come?
A spirale, senza rompere la buccia; ogni volta che uno ci riesce, diciamo che muore un prete.

Nel documentario rimpiange di non aver fotografato Sciascia nella sua casa di vacanza.
Una casa che oggi definiremmo da miserabile, dove per tanti anni è andato l’estate per scrivere. Io stavo lì, guardavo, ascoltavo, assimilavo per osmosi.
Solo per osmosi.
Non mi ha mai consigliato un libro, lui che dava la sensazione di aver letto tutti quelli pubblicati e scritti.
Onnivoro.
Un giorno sono a Parigi e da un antiquario trovo una sorta di auto-intervista scritta da André Gide. Apro e leggo. ‘Di cosa si sta occupando in questo momento?’. ‘Mi assilla la scomparsa del congiuntivo nella lingua francese’. ‘Ma come, c’è la guerra e pensa al congiuntivo?’. ‘Sì, perché le guerre si fanno al vendicativo’. Racconto questa storia a Sciascia e lo scopro irritatissimo.
Per il congiuntivo?
No, perché esisteva un libro a lui sconosciuto; quando Sciascia parlava di un argomento, qualunque argomento, sempre associava un’evocazione linguistica, narrativa, saggistica. Quindi non ti consigliava un libro, ma uscivi da lui e magari andavi a cercarlo.
Anche Manuel Vázquez Montalbán era così?
No, lui aveva una concezione nobilissima ma ironica della letteratura; il suo personaggio, Pepe Carvalho, spesso utilizzava i libri per accendere il camino; (ci pensa) Borges era simile a Sciascia: per lui vita e letteratura erano un’unica forma d’identità, anzi è arrivato a sostenere che Dio è il più grande personaggio della letteratura fantastica.
Montalbán, come lei, aveva una grande passione per il cibo.
Le cene con lui erano uniche: al ristorante non apriva bocca, ma appena si sedeva iniziavano ad arrivare infinite delizie; una sera mi ha riconsegnato in albergo completamente ubriaco, la mia unica sbronza, infatti non ricordo nulla.
Tra i suoi amici scrittori c’è Milan Kundera.
Uno degli uomini più intelligenti mai conosciuti; un uomo diffidente nei confronti della storia, dei luoghi comuni. Detestava chi lo definiva ‘dissidente’, ‘perché sono uno scrittore, solo la storia mi ha messo in questa condizione. Non sono un dissidente di professione’.
Per la foto ci vuole “mente, cuore e occhio”.
Lo sosteneva il padre della fotografia, Cartier-Bresson; mente: devi capire cosa stai immortalando; cuore: quello scatto deve veicolare un’emozione, altrimenti non c’è racconto; occhio: deve avere una forma. Questi tre aspetti, ripeteva, è fondamentale stiano insieme e in equilibrio.
Com’era lui?
Meraviglioso, una specie di incarnazione del mito; quando è uscito il mio primo libro, molti hanno sostenuto che era evidente il suo ascendente culturale su di me, ed era vero, eppure lo conoscevo pochissimo.
E allora?
Lo avevo risucchiato attraverso i pori della cultura; poi siamo diventati amicissimi e non era un monumento di marmo dentro un giardino francese, ma una persona con la quale potevi parlare di tutto, nonostante le nostre differenze: lui rampollo di una grande famiglia borghese, io il contrario.
Davanti a tali monumenti si è mai sentito in difficoltà?
Sono assolutamente avvitato dalla sindrome dell’impostore.
Ancora oggi?
Avvitato con doppia mandata; continuo a pormi infinite domande su chi ha scattato le foto finite nel mio primo libro: avevo solo 17 anni ed ero di un’ignoranza assoluta. Non sapevo nulla di nulla. Quindi chi le ha scattate? La gioventù? La passione? L’istinto? La consapevolezza oscura che il mondo contadino immortalato stava per sparire? Poi ho tradotto in mestiere una passione non ben definita.
Passione poi ben definita.
Oggi ho più di seimila libri sulla fotografia; poi mi sono dedicato ai giornali, ai romanzi, alle mostre. Ho cercato di colmare il mio abisso di ignoranza, con un paradosso: più la colmo e più mi relativizzo e più diminuisce il mio valore.
Sentirsi un impostore è utile?
Molto, soprattutto se uno ha la fortuna che gli altri non ci credono; (ride, molto) una volta un tizio mi ha chiesto: ‘Quando le dicono che è un grande fotografo, cosa pensa?’. Ecco, lì ho pensato: ‘Che di fotografia non ne capisce niente’.
Cartier-Bresson fotografava solo il reale, senza artefici. Cosa le disse quando negli anni 80 si dedicò alla moda con Dolce & Gabbana?
Gli inviai i primi scatti; rispose con una cartolina con su scritto: ‘Attention, attention, attention!!!’ con tre punti esclamativi crescenti. Poi aggiunse: ‘Li fai troppo bene’. Insomma, non era d’accordo.
Non si è fermato.
La mia curiosità ha vinto.
E ha associato il suo nome a due ragazzi allora semisconosciuti. Un rischio.
Anche loro si sono affidati a uno che non si era mai occupato di moda; in realtà non avevano una lira e non potevano coinvolgere un fotografo del settore. Comunque dentro c’era una buona idea.
Vincente.
Il bello è che mi hanno chiamato dopo aver visto degli scatti sulla Sicilia. Peccato che quegli scatti non erano miei e l’abbiano scoperto anni dopo.
Quando ha capito che la strada della moda era giusta?
Nel momento in cui sono andato a ritirare i primi rullini: ho guardato il risultato e ho sorriso, tanto che lo stampatore mi ha chiesto il motivo della reazione. ‘Credo che dentro ci sia qualcosa di buono’. Quel catalogo mi ha cambiato la vita e ancora oggi, ogni anno, ne vengono stampate migliaia di copie ed è stato recensito dal Washington Post.
Nel documentario spiega che da ragazzo ha creduto che attraverso uno scatto si potesse cambiare il mondo. Ma ha smesso di crederlo.
Ricordo un articolo di Rossana Rossanda: ‘Compagni, guardate che se facciamo la rivoluzione non è che scompariranno pure le emorroidi’. Nessuno scatto, nessun quadro, nessun film di quelli buoni ha cambiato il mondo, però quelli cattivi lo peggiorano, quindi la responsabilità c’è sempre; se oggi una casa di Gaza dovesse avere sulla parete un disegno di Toulouse-Lautrec, pensa che quei palestinesi starebbero meglio?
Com’è il suo ego?
Piccolo per la dimensione che meriterebbe.
Il rapporto con i soldi.
Non ho alcun rispetto, perché non mi sono mai mancati, specialmente da quando ho iniziato a lavorare per l’Europeo, nonostante il compenso fosse nettamente inferiore a quello dei giornalisti.
La sua debolezza.
Ne ho tante, a partire dall’ignoranza e poi dal fatto che vorrei essere amato e apprezzato da tutti.
Lei chi è?
Un ragazzino di Bagheria che ha avuto la fortuna di fare un’esperienza cosmopolita.