Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  settembre 21 Domenica calendario

Una scuola, un ristorante... Così le donne di Herat convincono i talebani: "Ci vuole pazienza"

Qualsiasi cosa, pur di non impazzire. Anche i lavori più umili, anche rischiare il carcere. Sono pronte a tutto le afghane pur di non soccombere alla follia che è diventata la loro vita sotto il regime dell’emirato islamico. Proclamato quattro anni fa dopo la ritirata degli Stati Uniti, le ha cancellate dalla società. Proibito studiare, disegnare, ascoltare musica, ballare e molto altro ancora se non tra le quattro mura di casa. Bandite dal mondo, si sono trovate a combattere contro un nemico subdolo e pericoloso quanto i talebani: le malattie mentali. Secondo le Nazioni Unite nel 2024 quasi 7 donne su 10 soffrono di problemi psicologici. «Sono sempre più numerose quelle che si rivolgono a me. Sono depresse, in forte difficoltà per la situazione che vivono fuori ma anche dentro casa», conferma Yasmin Eshaqzai, psicologa, operatrice di Medici senza Frontiere in Afghanistan. La resistenza delle donne di Herat, la capitale culturale dell’Emirato, nasce così. È una ribellione silenziosa ma ostinata, una rete di mutua assistenza di madri, figlie, ragazze. Creano spazi di libertà lontani dalle proibizioni, a volte clandestini, più spesso sul filo della legge, in un equilibrio precario ma necessario per evitare di finire isolate, intristite, svuotate di senso.
Alle nove del mattino il ristorante Sobh-e-Bahar nel quartiere di Dai a Herat, è aperto. Una rampa di gradini porta in un seminterrato. «Ciao, benvenuta», è il saluto di un gruppo di donne. Capelli scoperti, gesti disinvolti, sorrisi e nessun uomo in giro. «Che cosa pensi della possibilità di trasformare i divieti in un’opportunità?». Si presenta così Malalai Frotan, 43 anni, la proprietaria del ristorante dove gli uomini non possono entrare e le donne hanno la possibilità di ricordarsi come si vive senza divieti.
Subito dopo la proclamazione del regime islamico Malalai Frotan aveva provato ad aprire una sala massaggi. Gliel’hanno chiusa rapidamente. La stessa sorte è toccata al tentativo di inaugurare un salone di bellezza e poi una palestra. «Ero molto triste, mi sembrava di avere tutte le porte sbarrate davanti a me. Ho lasciato che i poliziotti uscissero, mi sono guardata intorno e mi sono imposta di calmarmi e di pensare. Il giorno dopo sono andata all’Ufficio della virtù e della morale e ho affrontato la questione in un altro modo. Sono stata io a chiedere ai funzionari che cosa mi era permesso fare senza infrangere la legge».
È nata così l’idea di creare un ristorante riservato alle donne. I solerti poliziotti non hanno trovato nulla da eccepire e fin dal primo giorno il Sobh-e-Bahar non è mai stato soltanto un ristorante. Tra gli scaffali della grande sala ci sono libri, riviste. C’è una copia della storia di Malala, un modello per le giovani afghane, e una dei versi di Forough Farrokhzad, la poetessa iraniana che con i suoi scritti e con la sua vita da donna libera ha sfidato le autorità islamiche. Le donne si siedono ai tavoli per leggere quello che altrove non potrebbero leggere, per parlare con chi ha già un’occupazione e può dare consigli a chi sta cercando o per unirsi alle giovani che in una sala accanto lavorano davanti a degli schermi. «Vendono vestiti online per una ditta afghana. – racconta Malalai Frotan – Potrebbero farlo a casa ma sarebbe molto più noioso, deprimente. La stanza da dividere è una scusa per uscire e stare insieme, sentirsi vive».
Anche il magazzino che si trova in un quartiere lontano dal centro di Herat non è un magazzino. Alle dieci del mattino, dietro una porta in ferro Myriam Hafari si sta allenando insieme ad altre otto ragazze. Indossa un kimono candido e una cintura nera e sta tirando calci su una tavoletta di legno. Ha 21 anni, da sempre ama il taekwondo e il giornalismo. Un giorno i talebani hanno deciso che tutto quello che le interessa nella vita è illegale e lei si è vista crollare il mondo addosso. «Pochi giorni prima della salita al potere dei talebani ci eravamo riunite nella nostra palestra per prepararci alle Olimpiadi. Era il mio obiettivo, avevo lavorato anni per riuscirci. Invece prima hanno proibito di fare sport poi anche di studiare. Ero iscritta al secondo semestre della facoltà di giornalismo, che cosa avrei dovuto fare? Smettere tutto?».
Myriam non va più all’università perché nessuno la farebbe entrare ma continua a studiare a casa. Insegna inglese e, con i soldi guadagnati paga i corsi di tedesco e l’affitto della palestra. «Non posso più partecipare alle gare ma ogni mattina esco di casa e vado ad allenarmi sul tatami». I suoi genitori lo sanno e tremano. «Sono preoccupati per me ma non riesco a lasciare la palestra, è la mia vita. Il suo sogno? Arrivare in Europa e riprendere a studiare e allenarsi».
Sono quasi le undici quando le giovani del taekwondo lasciano la palestra. Una per una, in silenzio, per non farsi notare. Myriam va a casa e si mette davanti al telefonino per le lezioni di tedesco e inglese. Anche Soghra Sohrabi va a casa e accende il telefonino. Sullo schermo appare una giovane dai tratti orientali e nella stanza si diffondono le note di un brano di K-pop, il misto di hip hop, rock e musica elettronica che arriva dalla Corea del Sud amato da milioni di giovani in tutto il mondo, dalla figlia di Giorgia Meloni alle ragazze di Herat. Soghra inizia a ballare. A quell’ora in casa non c’è nessuno, lei è libera di fare quello che i talebani considerano un peccato senza rimedio, muovere il suo corpo al ritmo della musica senza indossare la lunga veste che dovrebbe opprimerlo. Danza e pubblica i video sul suo profilo Instagram. Danza, senza preoccuparsi di chi guarderà il suo corpo. «Ho imparato da sola – racconta quando la musica finisce – per diventare professionista dovrei andare via dall’Afghanistan. Ho bisogno di soldi e di qualcuno che mi aiuti». In Italia potrebbe parlarne ai genitori, qualcosa di sicuro farebbero per lei. A Herat non funziona così. «Ai miei non ho detto nulla, non capirebbero. Vorrei che qualcuno vedesse le mie coreografie e mi desse una mano ad andare via».
Poco lontano, in un altro quartiere di Herat, c’è una scuola. Anche questa non è solo una scuola. La frequentano ragazze e ragazzi con ingressi, classi e destini separati. I ragazzi vanno a imparare mestieri tecnici come riparare computer e telefonini, le donne a tessere e vendere tappeti o a impastare spaghetti, «Non importa», dice Jamila, 33 anni, una laurea e una vita iniziata prima dei divieti dei talebani. «Quello che conta è che le ragazze vengano. Qui non siamo solo insegnanti né loro sono solo studentesse e ci diamo una mano a vicenda. Io ho bisogno di un motivo per non rimanere dentro casa e loro devono imparare innanzitutto a non arrendersi. Ci sono molti limiti ma anche alcuni spazi che permettono di decidere come vivere». La scuola è stata chiusa già due volte e i genitori hanno paura a mandare lì le figlie. Jamila ha sanato i problemi riscontrati dai talebani ed è andata casa per casa a convincere le madri, l’attività è di nuovo in regola. Ora sono oltre duecento a frequentare i suoi corsi.
«Ci vuole pazienza e determinazione, andare negli uffici e ogni volta chiedere, spiegare e pensare soltanto a convincere i funzionari a dare il permesso necessario a svolgere l’attività», racconta Somaya Moniry che, attraverso le pieghe della legge, ha iniziato a svolgere un lavoro nuovo: guida turistica per turiste che decidono di viaggiare da sole in Afghanistan. «Non sapevo che le donne potessero viaggiare da sole. Quelle che avevo visto fino ad allora cucinavano, lavoravano ma non facevano nulla se non con il marito o con la famiglia. Mi si è aperto un mondo, le donne avevano bisogno di una guida e ho deciso di avviare questa attività. Paura di infrangere le regole dei talebani? Paura di fare qualcosa che non dovrei? Gli altri ne hanno, a partire dai miei genitori, che all’inizio non capivano, e dai miei amici. Io no».