il venerdì, 19 settembre 2025
Il reportage: che fine hanno fatto le primavere arabe?
Le ultime arrivate sono le gru che stazionano davanti al Mogamma, il mastodontico palazzo grigio che occupa il lato sud di piazza Tahrir. Circondate da operai in caschetti gialli, al lavoro nonostante il caldo, si muovono con uno scopo preciso: trasformare in tempi rapidi l’edificio simbolo della burocrazia egiziana in un hotel di lusso. Sotto le insegne del gruppo Marriott, e grazie a un consorzio di investitori che comprende il fondo di investimento degli Emirati arabi uniti e quello egiziano, l’ultimo nato della catena non ha ancora una data di apertura fissata. Ma i rendering diffusi a febbraio, quando sono partiti i lavori, non lasciano dubbi sull’ambizione del progetto: una mega piscina circondata da palme sul tetto, zone di relax con vista sulla città, ampi spazi esterni per garantire agli ospiti un isolamento adeguato dalla piazza.
Una piazza che non è un posto qualunque, ma il cuore stesso del Cairo e soprattutto un luogo diventato famoso in tutto il mondo nel 2011, quando fu il centro delle proteste che – dopo undici giorni di occupazione, canti, balli e proiettili – misero fine ai quasi 30 anni del regime del presidente Hosni Mubarak.
Chi arrivasse a Tahrir oggi con in testa le immagini di quei giorni, si troverebbe di fronte a uno spazio che non è più lo stesso. Al centro della piazza, dove sorgevano le tende che ospitavano gli artisti e gli attivisti, che di quella Primavera furono gli animatori, oggi c’è un obelisco fatto arrivare appositamente da Luxor: quattro sfingi posate ai suoi piedi e l’aiuola che le circonda hanno preso possesso dello spazio circostante, che in questa maniera oggi non potrebbe mai ospitare una folla simile a quella di quattordici anni fa. Come se non bastasse, due macchine della polizia stazionano fisse non lontano dalle sculture, scoraggiando chi volesse tentare un’occupazione anche solo simbolica. Non sono sole.
Tutte le strade che conducono a Tahrir sono puntellate di pattuglie: fermano chiunque, principalmente giovani, e costringono a sbloccare sui cellulari i profili social, in cerca di un qualunque segnale di dissenso politico. Non proprio il clima ideale per una passeggiata in centro, insomma.
Anche il Museo Egizio, dal 1902 una certezza assoluta nell’architettura e nella vita del Cairo, presto non sarà più lo stesso: con l’apertura del Grand Egyptian Museum prevista – inshallah – per fine anno, le frotte di turisti che ogni mattina stanno in fila davanti all’edificio rosa diminuiranno notevolmente, lasciando che a occupare questi spazi bellissimi e modellati dal tempo siano solo gli appassionati veri dell’Antico Egitto, quelli decisi ad andare oltre gli ori di Tutankhamon, destinati a trasferirsi in massa ai piedi delle Piramidi. «Quello che vogliamo fare è trasformare l’intera piazza in un hub turistico: il Museo Egizio, naturalmente, ne sarà parte», ci dice Mohammed Ismail, potentissimo direttore generale delle Antichità egiziane. Tu chiamala, se vuoi modernità.
A parlare con la comunità degli architetti e dei sociologi egiziani, sono pochi a pensarla così. La stragrande maggioranza – a denti stretti se ti conosce poco, apertamente ma chiedendoti di non fare nomi se si fida – confessa di vederla in maniera del tutto diversa. Lo scopo vero dei vari progetti di rinnovamento, secondo loro, è l’occupazione dello spazio pubblico e la sua neutralizzazione. In poche parole, togliere ai venti milioni di egiziani che vivono al Cairo (e di conseguenza a tutti gli altri), la possibilità di riunirsi in massa, dando vita a proteste come quelle del 2011 e poi del 2013, quando a cadere, questa volta sotto i colpi dei carri armati di Al Sisi, fu il governo dei Fratelli Musulmani guidato da Mohammed Morsi.
Una «incarcerazione dello spazio» l’ha definita Omnia Khalil, esperta di architettura e sociologia – che vive a New York e dunque non ha paura di esporsi – in un articolo pubblicato di recente dalla rivista del Merip, il Middle East research and information project. «Con Al Sisi, la carcerazione è diventata una modalità di governo. Centinaia di migliaia di persone sono state incarcerate senza motivo e senza un giusto processo. Ma anche lo spazio è stato carceralizzato negli anni successivi alla rivoluzione del 2011 e al colpo di Stato del 2013», scrive la studiosa. Che va avanti illustrando come alcuni dei più noti punti di aggregazione urbana abbiano cambiato volto in questi anni, sminuzzati – se non cancellati – da cavalcavia e sottopassi, nonostante l’opposizione dei residenti. O requisiti per far spazio a progetti per super ricchi come quelli che, uno dopo l’altro, stanno occupando le banchine del Nilo, dove una volta decine di house boat bohemienne accoglievano artisti e intellettuali disposti a sobbarcarsi la scomodità di una vita in barca in cambio della bellezza e della poesia del fiume. «Il governo ha un’agenda politica che è anche un’agenda urbana», conclude Khalil.
Nulla come la storia del Mogamma illustra alla perfezione l’agenda di cui parla la ricercatrice. Questo imponente edificio grigio che incombe sul lato sud di Piazza Tahrir, negli anni è diventato sinonimo di burocrazia impenetrabile, l’incarnazione di uno Stato progettato per alienare il suo popolo. E come tale protagonista di film e canzoni popolari. Prima della sua chiusura, nel 2021, il Mogamma impiegava circa novemila funzionari governativi: centinaia se non migliaia di cittadini egiziani vi si riversavano ogni giorno. Per rinnovare i passaporti, presentare la dichiarazione dei redditi o richiedere qualsiasi documento dovevano passare da qui. Per i 18 giorni della rivoluzione, lo spazio all’esterno del Mogamma fu rivendicato dalla popolazione: i giovani sognavano che sarebbe rimasto così per sempre, un luogo a disposizione di tutti. L’idea era che “il mostro, come lo chiamavano in tanti, sarebbe stato demolito per far posto ad aree pubbliche.
Oggi, invece, è diventato il simbolo del Paese per pochi che sta progettando Al Sisi: alberghi extralusso come quello che qui sorgerà. Resort nell’area archeologica del monastero di Santa Caterina, nel Sinai. Un aeroporto dedicato alle Piramidi e a chi vuole visitarle evitandosi lo stress della metropoli. L’accesso contingentato (e solo a pagamento) nel plateau di Giza. E naturalmente la Nuova capitale amministrativa, una città in vetro e cemento del tutto simile a Dubai in cui si stanno lentamente spostando tutti gli uffici governativi e le ambasciate. Un progetto, quest’ultimo, che vale miliardi di dollari e di cui l’Egitto, che sta attraversando la più pesante crisi economica della sua storia, non sentiva il bisogno. Ma che per Al Sisi, e per i futuri ospiti dell’albergo che sta nascendo al posto del Mogamma, ha un scopo chiaro: tenere la gente lontana dal potere. E il potere lontano dalla gente. Tutto il contrario di ciò di quello che la folla di Piazza Tahrir sognava in quel lontano 2011.