La Lettura, 14 settembre 2025
Le nuove eroine dei videogiochi. Addio Lara Croft
PlayHer è un breve saggio a capitoli indipendenti che indaga sui personaggi femminili, principali e secondari, di un vasto numero di videogiochi, cercando di tracciare, per ognuno di loro, una riflessione e una linea di evoluzione. Il titolo è geniale: incrocia l’immagine stereotipata del giocatore di videogiochi maschio (player), che conosce solo remotamente l’esistenza dei prodotti d’igiene personale, in una camera buia, tranne la tastiera del pc retro illuminata, sprofondato in maglietta nera e pantaloni cargo al ginocchio dentro una poltroncina sagomata e molleggiata come nemmeno a Space X, a quella ben più realistica delle milioni di giocatrici che attualmente fanno il mercato dei videogiochi: nella sua fetta più importante, quella degli Stati Uniti, il 72% delle donne dichiara di giocare occasionalmente ai videogiochi sul proprio telefono e il 47% si definisce gamer (Statista, 2025). E mette in relazione i giocatori, maschi o femmine che siano, con i personaggi femminili che sono tenuti a interpretare dentro ai vari videogiochi, ovvero a «giocare» (play) come se fossimo «lei» (her).
Che tipo di her troviamo, oggi, se ci mettiamo al joypad? Se state pensando a Lara Croft, l’eroina che ruppe una consuetudine di eroi maschili con il pallino dell’archeologia, le cose sono molto cambiate: Lara aveva un’estetica del personaggio e una dinamica di gioco ancora completamente rivolta a un pubblico di giocatori maschi. Mentre oggi ci sono giochi e situazioni più interessanti, vuoi perché ci sono sempre più donne che lavorano come narrative designer, la professione di chi scrive i giochi, all’interno di produzioni tripla A, ovvero dei videogiochi più costosi sul mercato, vuoi perché crescendo il numero delle giocatrici è cresciuta la loro domanda di differenziazione.
Gli autori del libro – Giulia Martino, giornalista e critica videoludica, e Francesco Toniolo, docente universitario con una passionaccia per i videogiochi indie – ci presentano una serie di casi. Uno dei più interessanti è quello di The Legend of Zelda, perché arriva dal Giappone, una nazione non esattamente bilanciata nelle opportunità di genere. La principessa Zelda, da sempre il nome della saga, ha dovuto aspettare 38 anni per poter essere la protagonista giocante del suo universo (nel 2024, con Echoes of Wisdom): fino ad allora, i milioni di giocatori di tutto il mondo si erano sempre infilati nelle scarpe di Link, un giovane intrepido vestito di verde. In realtà, nel mondo di Zelda esistono tanti Link e tante Zelda quante le diverse uscite del videogioco, con i protagonisti che progressivamente si dotano di una loro storia, capacità di agire, interessi e profondità. Il concetto da imparare, qui, è quello di agency: c’è quella del giocatore e quella del personaggio. La prima è la possibilità di chi impugna il joypad di compiere azioni significative e di sentirsi come chi è riuscito a far progredire la storia (ho saltato su quella piattaforma, ho trovato il modo di uccidere il mostro, eccetera); la seconda è la capacità di un personaggio di impattare in modo centrale e significativo sull’universo del gioco. Per capire questa dimensione provate a immaginare un videogioco nel mondo di Dracula dove voi non siete Dracula, ma un semplice viaggiatore, e comunque tutta la narrazione ruota attorno al personaggio di Dracula e quello che può fare (anche se non siete voi a farglielo fare). Allo stesso modo, per quasi 40 anni Zelda ha fatto girare attorno a sé i desideri e le azioni di un nugolo di personaggi, comportandosi sia come un’icona femminista sia come uno stereotipo: nel capitolo intitolato The Wind Walker, ad esempio, è a capo di una ciurma di pirati che ha girato il mondo, mentre Link non è mai uscito dalla sua piccola isola. Ma non appena lei scopre di essere una principessa, sarà Link a doverla salvare. Un po’ come la principessa del film Avatar, che sembra un’iradiddio, ma che poi si affida a un Marine appena arrivato per salvare il suo pianeta dai cattivi. E comunque, anche in questo ultimo videogioco... se il giocatore vuole «picchiare» qualcuno, deve far prima trasformare Zelda in Link, perché, si sa, le principesse non menano.
Dove il saggio di Martino e Toniolo si rivela molto utile è quando va a scovare una serie di videogiochi molto meno conosciuti, gli indie, per l’appunto, che sono oggi un mercato sterminato di piccoli o piccolissimi titoli di nicchia, dove, in modo simile a quanto accade con i libri, spesso si trovano delle perle.
Chi ha giocato a What Remains of Edith Finch, un gioco di esplorazione dove si partecipa alla progressiva scomparsa di tutti i famigliari della protagonista, o The Path, un horror con tante Cappuccetto Rosso e altrettanti Lupi, sa di cosa stiamo parlando. E chi non ci ha giocato, forse dovrebbe, perché il tipo di esperienza narrativa che certi videogiochi permettono, quella di essere per qualche ora nei panni di un certo modello femminile, ha un impatto diverso dalla lettura o da un film. È più intima e improvvisa, e quindi può essere più appagante o frustrante a seconda di come il gioco è stato disegnato. A questo servono le indicazioni puntuali e i consigli degli autori. Ogni capitolo del libro prova a tracciare un percorso e un identikit di ruolo: dalla principessa alla donna imprenditrice (quelle del gioco di ruolo narrativo Disco Elysium), dall’eroina minata da una sorprendente malattia mentale (la Senua di Hellblade, dove il giocatore sente continuamente le voci che parlano dentro la sua testa, e non sono voci credibili), alla donna curatrice (le Aerith di Final Fantasy, la cui morte, nel capitolo VII della saga, a quanto pare, ha segnato una generazione di player), dalla strega combattente (Bayonetta), fino alle madri mostruose di Resident Evil, una saga in cui gli autori individuano un altro passaggio cruciale.
Se trent’anni fa i personaggi giocanti principali avevano un ruolo di figli e figlie (perché i giocatori erano per lo più ragazzi), oggi quegli stessi giocatori sono diventati padri o madri, e quindi l’offerta di ruoli giocanti si è spostata di conseguenza. Come avviene in The Last of Us, in cui si gioca, per l’appunto, nel ruolo di un padre disperato. Puntuale, alla fine di ogni capitolo, una bibliografia critica per gli approfondimenti. PlayHer è un libro pionieristico, molto utile e prezioso, che ha forse l’unico difetto, probabilmente da parte dell’editore, di non avere chiesto agli autori, indubbiamente molto preparati, di articolare un più approfondito discorso di cornice, una valutazione generale del dove siamo, e del dove potremmo andare. Manca un po’ la quest generale e di conseguenza la disponibilità, pensate l’ironia, a mettersi in gioco.