La Lettura, 14 settembre 2025
E la fotografia imparò a guardare
Nel 1925, alla Leipziger Frühjahrsmesse, la fiera di primavera di Lipsia, accadde qualcosa che avrebbe cambiato per sempre il modo di guardare il mondo. Oskar Barnack presentò la Leica I, la prima fotocamera compatta a pellicola 35 millimetri destinata a rivoluzionare non solo la fotografia, ma anche il nostro immaginario. Da allora sono passati cento anni, e il nome Leica continua a evocare non tanto un marchio, quanto un linguaggio.
Henri Cartier-Bresson con la sua ricerca dell’istante decisivo, Robert Capa tra le macerie della guerra, Gianni Berengo Gardin nelle pieghe del quotidiano, Ferdinando Scianna tra la Sicilia e il mondo, Mario Dondero sulle strade di un’Italia che cambiava: tutti hanno avuto una Leica al collo. Non per moda, ma per necessità. Perché quella macchina piccola e discreta consentiva ciò che nessun’altra permetteva: avvicinarsi senza disturbare, osservare senza alterare. Prima dell’avvento del digitale, nei teatri la Leica era spesso l’unica macchina consentita. Il motivo era semplice: l’otturatore a tendina era quasi impercettibile, un sussurro rispetto al fragore delle reflex. Il fotografo poteva così muoversi invisibile, registrare senza interrompere. Ma non era solo questione di rumore. Era anche un modo diverso di guardare. La Leica non aveva lo specchio reflex: al suo posto, un mirino telemetro decentrato rispetto all’obiettivo. Attraverso quel piccolo riquadro luminoso, il fotografo vedeva due immagini lievemente sfalsate che, incastrandosi, confermavano la messa a fuoco. Due mondi diversi che per un istante diventavano uno solo. Fotografare con un telemetro era, ed è ancora, un atto di fiducia: significa credere che l’occhio possa completare ciò che non vede. Significa includere più contesto, lasciare che il fuori-campo dialoghi con l’inquadratura.
Molti fotografi hanno raccontato che attraverso quel mirino non si isolava il soggetto: lo si collocava nel mondo. Si vedeva dentro la cornice e fuori dalla cornice allo stesso tempo, perché il campo visivo del telemetro è più ampio dell’inquadratura. Così il fotografo non era un cacciatore che mirava e sparava, ma un osservatore che si muoveva insieme alla scena. Una disciplina dello sguardo che ha educato generazioni: imparare a scegliere che cosa includere e che cosa lasciare fuori, accettando che la realtà è sempre più grande dell’immagine che possiamo catturare. Non sorprende allora che alcune delle immagini più potenti del Novecento siano passate proprio attraverso una Leica. Capa la stringeva al petto tra onde e pallottole dello sbarco in Normandia. Quelle foto, sopravvissute solo in parte a un incidente di laboratorio, non erano nitide: erano vive. Cartier-Bresson invece la trasformò in filosofia: il «momento decisivo» era reso possibile da un oggetto piccolo, veloce, silenzioso. La sua Leica non era un accessorio, era un’estensione dello sguardo. Ogni volta che abbassava il mirino sull’occhio, diventava invisibile. Non si trattava di rubare immagini, ma di restituirle, senza violarle.
La Leica cambiò il destino del fotogiornalismo. Con lei il fotografo smise di essere un cronista distante, nascosto dietro a un apparato ingombrante. Divenne un testimone immerso, pronto a cogliere la realtà dall’interno. Nel dopoguerra, Mario Dondero la trasformò in un taccuino visivo: viaggiatore instancabile, amava la Leica perché gli permetteva di scattare senza interruzioni, di essere pronto sempre, in ogni condizione. Con Berengo Gardin, invece, diventò rigore e trasparenza. Fu con una Leica che entrò nei manicomi, documentando un mondo nascosto che l’Italia non voleva vedere. Quelle immagini severe e umane insieme mostrarono come la discrezione della macchina fosse indispensabile per varcare confini fragili. E poi c’è Scianna, che con la Leica ha costruito un rapporto biografico, intimo, quasi carnale. Dalla Sicilia degli esordi agli incontri con Leonardo Sciascia, dalle campagne di moda ai reportage nel mondo, Scianna ha sempre parlato della sua macchina come di un compagno di vita. Diceva che la Leica gli ha permesso di restare fedele a sé stesso: piccolo corpo, ottiche straordinarie, nessun orpello. Solo il necessario per guardare.
Se il corpo della Leica ha segnato la storia, le sue lenti ne hanno consolidato il mito. Fin dagli anni Trenta, sotto la guida di Max Berek, Leica sviluppò ottiche che avrebbero ridefinito il concetto stesso di qualità fotografica. La Elmar del 1925, il Summar del 1933 e soprattutto il Summicron del 1953 non furono solo innovazioni tecniche, non furono solo obiettivi eccellenti: divennero sinonimi di un modo diverso di vedere. La differenza non era soltanto nella nitidezza, ma in quella somma di qualità invisibili che ogni fotografo imparava a riconoscere a occhio nudo: micro-contrasto, profondità tonale, tridimensionalità. La luce, attraverso quelle lenti, non appariva catturata ma accolta, restituendo immagini che sembravano respirare.
Non stupisce che molti fotografi, parlando delle ottiche Leica, abbiano preferito usare parole sensoriali più che numeri: tridimensionalità, respiro, naturalezza. Perché non si trattava solo di riprodurre la realtà, ma di interpretarla con fedeltà e delicatezza, dando forma visibile all’invisibile.
Il centenario del marchio non è solo un anniversario industriale, ma un momento di riflessione culturale. In Germania, a Wetzlar, Leica ha organizzato esposizioni e incontri che ripercorrono la storia della fotografia attraverso i suoi protagonisti. In Italia, diverse gallerie hanno scelto di celebrare il rapporto fra i nostri autori e questa macchina: dalle mostre dedicate a Berengo Gardin alle retrospettive su Scianna. Ma più delle celebrazioni ufficiali, resta l’eredità viva delle immagini. Basta osservare uno scatto di Cartier-Bresson o una fotografia di Capa per capire che la Leica non è stata solo uno strumento, ma un alleato invisibile. Non ha imposto uno stile, ha permesso che lo stile emergesse. È questa la sua vera forza: aver reso possibile un modo di guardare che era già dentro i fotografi, ma che aspettava lo strumento giusto per manifestarsi.
Allen Ginsberg, poeta della Beat Generation, possedeva una Leica M6 e scrisse che «qualcosa, una volta che l’hai amato, diventa parte di te per sempre». Non parlava solo di persone. Paradossalmente, parlava anche di un oggetto: un compagno che non è mai stato neutrale, perché ha insegnato a interi decenni di fotografi a vedere con maggiore precisione e, allo stesso tempo, con maggiore umanità.
Cent’anni dopo, mentre il mondo celebra Leica, i fotografi sanno che la vera festa accade ogni volta che qualcuno porta l’occhio a quel piccolo mirino e sceglie di fermare un frammento di vita. Perché in quella discrezione, in quel respiro silenzioso, c’è ancora oggi l’essenza della fotografia: dire il vero senza alzare la voce.